12 DICEMBRE (1972), di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Bonfanti

12 Dicembre. 1969, chiaramente, l’inizio della tensione italiana, prologo degli anni di piombo. Il giorno delle bombe, quando nel pieno centro di Milano, in quella piazza Fontana a due passi dal Duomo, esplode la Banca Nazionale dell’Agricoltura, diciassette morti e ottantotto feriti. Quando, la sera stessa, viene arrestato l’anarchico Pinelli, trattenuto innocente per due giorni e poi “accidentalmente” defenestrato, prima ‘suicida’ e poi ‘caduto’. Quando, nei mesi seguenti, muoiono in circostanze misteriose tutti i possibili testimoni, mentre le autorità – polizia politica e magistratura – che tanto si erano prodigate per insabbiare la verità, posavano sorridenti a ogni nuova promozione. Facile parlarne così apertamente adesso, a dieci anni dalla sentenza della Cassazione che ha stabilito la colpevolezza della cellula neofascista Ordine Nuovo, non potendo però punire i colpevoli perché “irrevocabilmente assolti dalla Corte d’Assise di Bari”. Molto meno semplice per Pier Paolo Pasolini, insieme al collettivo di Lotta Continua, documentarlo nei primissimi anni ’70, e infatti 12 Dicembre non uscì, a parte una fulminea comparsata al Festival di Berlino, per quasi 40 anni. Un atto di coraggio che in quegli anni andava ben oltre i limiti del pericolo, film maledetto sin dalla nascita, bloccato dalla distribuzione perché troppo ardito. Tanto da convincere anche Pasolini stesso, che questo film lo aveva parzialmente girato e quasi completamente montato, a non firmare la regia per paura di ripercussioni legali, limitandosi ad aprirlo con un sibillino “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.
Il Sessantotto, nelle stanze dei bottoni, aveva evidentemente avuto l’effetto di un terremoto: scioperi ripetuti, università occupate, lotte, sabotaggi in Fiat, fino agli aumenti salariali, la diminuzione degli orari di lavoro, il riconoscimento dei diritti di Studenti e Lavoratori. Era la rivalsa delle classi meno abbienti, considerata un moto da reprimere. 12 Dicembre inizia ad un anno esatto dalla strage di piazza Fontana, per interrogarsi sulle circostanze milanesi e poi diventare un viaggio nella lotta, dal profondo nord della Ignis di Trento, con i manifestanti vigliaccamente accoltellati da infiltrati fascisti, fino alle barricate di Reggio Calabria in ‘reale’ lotta di classe contro lo Stato, identificato al tempo negli atteggiamenti repressivi delle Forze dell’Ordine, passando per le pericolosissime condizioni di lavoro degli estrattori carrarini e l’esodo dal sud verso Torino ‘per trecentomila lire’.
Il difficile quanto fruttuoso rapporto fra Pasolini e il gruppo guidato da Adriano Sofri – con l’iniziale diffidenza del collettivo nei confronti di un borghese, peraltro reo di essersi scagliato contro alcuni sessantottini “figli di papà” dopo gli scontri di Valle Giulia, e, dall’altra parte, l’intellettuale pronto a “mettere a tacere parte della coscienza” per diventare Direttore Responsabile del quotidiano Lotta Continua – si può riassumere nell’evidente differenza di taglio fra il materiale girato da Pasolini e quello girato da Giovanni Bonfanti. Se dalle parti di Lotta Continua si puntava infatti ad un documentario militante anni ’60, Pasolini interviene da antropologo, narratore e poeta per cercare il paradigma, indugia sui volti, trova metafore negli sguardi. Ecco quindi che a Bagnoli, Napoli, prima vediamo un corteo che sembra infinito davanti all’Italsider, ma poi l’attenzione si sposta sulle persone, sui loro visi, sulla rabbia ancestrale e la potenza emotiva di un incomprensibile sordomuto, sui bambini che cantano, scrutando l’orizzonte alla ricerca del Sol dell’Avvenire.

12 Dicembre è una mappatura umana e sociale che non può che catturare ed emozionare, ma Pasolini non rinuncia al taglio giornalistico, tentando di fare luce sul caso Pinelli, mostrando la rabbia della moglie, le lacrime della madre, le gravi incoerenze di una ‘verità’ che viene smontata punto per punto dall’avvocato. Parallelamente, si sviluppa un perfetto spaccato della società operaia anni Settanta: nelle città fioriscono i collettivi, le assemblee, il Popolo sta prendendo coscienza della propria forza. Si discute di sovvertire l’ordine borghese, si anela al potere proletario, si denunciano la miseria, la fame, le condizioni lavorative precarie, la scarsa sicurezza, i fumi tossici ed i massi che cadono, ma anche l’alienazione “chapliniana” della catena di montaggio, con lo stesso movimento ripetuto tutta la giornata. 12 Dicembre è un affresco girato a mano, anche con mezzi di fortuna: al cinema militante, Pasolini riesce ad aggiungere una straziante sincerità che tiene lontana la retorica, crea linguaggio, urla ai quattro venti la propria urgenza di mostrare, raccontare, riflettere. Passare ai posteri, e i posteri siamo noi che dobbiamo cogliere questo lavoro, fotografia di una situazione destinata a precipitare ulteriormente: una Repubblica al tempo appena ventenne, eppure già così corrotta e pericolosa. Seguiranno gli anni di piombo, tangentopoli, la fine della Prima Repubblica, il berlusconismo, la attuale e preoccupante avanzata delle nuove destre. In questo senso, 12 Dicembre è un film definitivo, ben oltre le intenzioni e le difficoltà realizzative, è cinema militante che diventa pienamente politico, riportando in Italia il discorso iniziato da Rossellini molti anni prima e passato poi alla Francia godardiana.
Visto oggi finalmente nella versione integrale di 104′, proiettato a Bologna nell’ambito del Cinema Ritrovato 2015, la potenza drammatica di 12 Dicembre risulta perfettamente intatta, e anzi scorrono diversi inevitabili brividi lungo la schiena pensando al prosieguo della Storia. Per dirla con Giovambattista Vico, i peggiori corsi e ricorsi storici si continuano a perpetrare: ed è così che l’elemento più agghiacciante del film, forse il suo principale punto di forza, emerge insieme alla sua estrema e tragica attualità. Si racconta degli innocenti arrestati durante il fascismo, paragonando senza mezzi termini la loro detenzione-tortura a quella degli anarchici, e la mente non può che correre alla Diaz, a Federico Aldrovandi, a Stefano Cucchi. Si parla degli (allora) neofascisti targati MSI, già presenti da prima ma travestiti da democristiani finché le cose andavano bene, e la mente non può che correre all’ondata di xenofobia che, negli ultimi tempi, sta dilagando più o meno per tutta Europa, con l’uscita allo scoperto di sempre più “moderati” pronti ad invocare ruspe ed eliminazioni fisiche. Si parla di povertà, di case popolari, di licenziamenti, mancava solo Equitalia perché sembrasse la prima pagina del Corriere. Ma si parla anche di lotta, di Resistenza, di Partigiani diventati operai e ancora affamati di diritti, equità e giustizia. Si parla di democrazia e di partecipazione, di ideali e di sincero confronto. Si parla del futuro, per consegnare ai nostri figli un posto migliore. Dovremmo farlo molto più spesso, tutti.

Marco Romagna