Ogni giorno sentiamo parlare di crisi. Crisi economica, crisi politica, sociale, addirittura morale. A queste, noi di CineLapsus dobbiamo aggiungere la crisi dell’immagine, una crisi che non è necessariamente “ufficializzata” e/o riconosciuta a livello mondiale, e forse neanche completamente internalizzata da noi, ma è una crisi di cui non possiamo che parlare, una crisi che dobbiamo discutere e soprattutto una crisi che bisogna capire. È la crisi dell’effimerità dell’inquadratura, la crisi che ci fa percepire ogni immagine come un qualcosa che potrebbe svanire, s-pixelandosi nella piattaforma inesistente che è il digitale (piattaforma che ci ossessiona e che ci assilla, come ci assilla e ci ossessiona la pellicola e la sua natura più o meno e(s)terna) – come nei finali degli ultimi film di Skolimowski, della Suwichakornpong e di Wenders. La crisi però la possiamo vedere anche come un qualcosa che tocca il nostro stesso lavoro (o passione, o quel che è): siamo una rivista online che commenta, recensisce, discute ciò che vediamo in sala, nel buio, di fronte allo schermo cinematografico, che è la rappresentazione, la manifestazione, il Sole di quello che noi amiamo, quello di cui ci siamo innamorati attraverso gli sguardi iconici dei veri capolavori. Adesso, però, quel buio in sala per noi ha senso solo nel ritmo festivaliero, quel mondo che frequentiamo il più possibile durante tutto l’anno ma che non dura, ahimè (?), tutto l’anno. Non ci si innamora più degli sguardi, forse, come un tempo, e questo è anche perché gli sguardi si sono evoluti, o forse involuti, e il cinema non è più il grande schermo bianco o la schiera di poltrone blu. Non si capisce più che cos’è. Una cosa però la sappiamo: esiste internet, esiste YouTube, esiste dunque una piattaforma che ogni giorno registra su di sé un numero talmente alto di video da superare la durata complessiva di un mese. Ed è una piattaforma su cui tutti possono mettere tutto. E quasi tutto è automaticamente spazzatura. Ma dove si trova il limite tra l’arte e la spazzatura? Cosa ci dice che anche la spazzatura non possa essere arte? E cosa ci dice che non ci sia bellezza anche nella spazzatura? È probabilmente da snob non riuscire a considerare YouTube una piattaforma comunque importante, che col cinema HA qualcosa a che fare: la piattaforma è diversa, ma l’idea è la stessa, è la comunicazione per immagini in movimento, è a volte intrattenimento e a volte arte, a volte monologo e a volte dialogo, a volte risata e a volte lacrima. È una piattaforma, dunque, interessante, una realtà parallela che a me piacerebbe approfondire come mi piace approfondire i film, e che magari proverò a fare anche in futuro su questo sito, trattando dunque come film quelli che gli “youtubers”, invece, chiamano, giustamente, video. Questo perché l’intrattenimento di YouTube è basato su follie che distraggono separando audio e video, su persone che documentano la propria vita, su individui che fanno vedere come si fanno o non si fanno determinate cose, su risposte e domande — e sono tutte cose, in realtà, che abbiamo visto, più o meno, anche in sala; insomma, è ovvio che c’è qualcosa che separa Pincus da un qualsiasi vlog online o qualcosa che separa la sezione sul cyberbullismo dell’ultimo film di Herzog dai video di pseudo-denuncia di Ethan e Hila Klein, tuttavia se ci mettessimo ad elencare le differenze ci ritroveremmo probabilmente solo e soltanto a notare delle differenze stilistiche, dunque interne e non esterne, visive e non etimologiche. Il problema è che su YouTube questa è la normalità. E a noi la normalità non piace, perché la normalità è un qualcosa che lo sguardo comprende, recepisce e subito identifica con un qualcosa che annoia e che rimane sempre uguale a sé stessa, e quindi abbiamo bisogno di aggrapparci a qualcosa che sia lontano da questa normalità.
Io sono sinceramente convinto, e a questo punto è necessario esplicitarlo, che tra gli autori più interessanti dell’ambiente contemporaneo ci sia uno youtuber nippo-australiano residente a New York, che mischia un umorismo nerissimo à la Louis C.K. con un’oscurità deprimente e corporale che a volte diverte e a volte incupisce — tutto condito con un’estetica legata in maniera indissolubile con la cultura dei “meme”, ovvero un’idea o un’immagine (tendenzialmente umoristica) di internet propagata attraverso internet stesso in più forme (audio, foto o video) fino all’inevitabile warholiana scomparsa di un significato. Con il nome d’arte “Filthy Frank”, George Miller (detto Joji) ha creato attorno a sé un mondo assolutamente delirante, un mondo che è perfetto per catturare in ogni suo aspetto la crisi dell’immagine di cui parliamo, anche se forse Miller non ne è consapevole, non la considera una crisi totale e si limita a considerarla una crisi personale, una sorta di lotta che ha con sé stesso e con ciò che lo circonda. Pur essendo decisamente noto (per non dire “famigerato”) per il pubblico di internet, Filthy Frank ha bisogno di una presentazione su questo sito: Miller, omonimia con il regista di Max Max a parte, ha cominciato nel 2011 a fare video su YouTube interpretando il personaggio di Filthy Frank, una specie di “antagonista” di internet per antonomasia, un’esagerazione volontaria, idiota e disgustosa di ogni stereotipo anti-politically correct, dal razzismo al sessismo fino al masochismo e ad un impresentabile rapporto con la vita pubblica. Una specie di insieme tra Eric Cartman di South Park e i personaggi “Gumby” che si ripetevano in più contesti nel Flying Circus dei Monty Python — ma con un’aura particolare nel rapportarsi al pubblico, quasi come se a volte volesse farsi portatore morale di qualcosa verso il quale bisogna, in effetti, scagliarsi, tipo un’altra idiozia stereotipata riscontrabile online, ma involontaria a differenza di quella del personaggio interpretato da George. Notato il successo del personaggio, Miller ha costruito attorno al proprio corpo e alle proprie immagini (la sua casa, i suoi multiformi amici pieni di sconforto esistenziale, la sua macchina da presa) una serie di altri personaggi, tutti generalmente slapstick, muti o incapaci di comunicare se non dicendo frasi prive di senso in giapponese – a causa dell’origine nipponica di Miller ma anche come richiamo ironico e offensivo verso la cultura anime.
Nonostante il 2016 sia stato quasi indubbiamente l’anno-“apice” per Filthy Frank (l’anno dei video più violenti ed eccessivi), penso sinceramente che il manifesto della sua arte – e non mi vergogno a chiamarla arte, anzi – sia un video di più o meno un anno fa, 100 Accurate Life Hacks, geniale lavoro di montaggio che trasforma una superficiale satira di una moda ‘internettiana’ in un disperato e disperante lavoro sul corpo, sulla maschera. La presa per i fondelli è diretta verso i “life hacks”, i consigli sulla vita, e verso il montaggio da programma televisivo di serie Z che spesso viene utilizzato, tanto su YouTube quanto sui canali TV più oscuri e misconosciuti. Una serie di immagini, dunque, una comunicazione quasi solo attraverso di esse, con Miller che pone domande retoriche irritanti con una voce assordante, caricaturale e parodistica, ponendo come scontato il fatto che Filthy Frank è una persona che, dunque, ha bisogno di consigli sulla vita, una persona sfortunata, una persona che va messa sotto il riflettore come esempio negativo. Il montaggio, palesemente parodistico, diventa tuttavia la forma di comunicazione principale, frapponendo ad ogni domanda una risposta dimostrata più dalla musica e dalle espressioni facciali del personaggio che dal tono della voce che continua ad essere caricaturale e insopportabile. Dopo un primo consiglio più o meno sensato, il video diventa un flusso di gag provocatorie che puntano a desensibilizzare lo spettatore o addirittura a disturbare la quiete pubblica, toccando corde sensibili della cultura generale nel primo caso (la droga, il “commento sociale” ironico sul problema del razzismo dei poliziotti verso gli afroamericani, l’aborto, la bulimia, lo stupro, il femminismo, la religione) e semplicemente usando l’ironia per sfottere e destabilizzare il prossimo nel secondo caso, di nuovo creando satira verso chi fa gli scherzi in pubblico e dimostrando l’idiozia di questi… facendo scherzi in pubblico, abusando della loro arma, risultando dunque disgustoso nel dilemma dell’interpretare un personaggio volutamente antagonista di tutti. Un personaggio, peraltro, pregno di una violenza delirante, violenza che si manifesta in tre maniere diverse attraverso il video, attraverso tre sfoghi che servono come risposta a queste continue, assillanti domande retoriche: il primo sfogo è uno sfogo verso gli altri ma nel privato, con un delirante mini-videoclip nostalgico in cui le dolci note di Only Time di Enya vengono ridicolizzate e abbinate a immagini al rallentatore di Filthy Frank che mette un criceto in un calzino e lo sbatte a giro uccidendolo (ovviamente, è tutto fittizio, quello è il criceto domestico di Miller); il secondo è uno sfogo verso gli altri in maniera pubblica, per eliminare il disturbo recato dal mondo esterno; e il terzo è come un richiamo che Filthy Frank fa a sé stesso come risposta a tutte le ultime domande, a prescindere da cosa dicono, ed è un richiamo al suicidio. Come se l’esterno smettesse di esistere e la crisi si riconcretizzasse verso un atto suicida, e la battuta smette di esistere, sostituita da un sincero disprezzo verso il media stesso che si sta utilizzando e verso l’interpretazione di un personaggio, un personaggio, quello di Filthy Frank, che sembra davvero, anche solo per 8 minuti scarsi, occupare tutto ciò che è la psicologia di Miller. 100 Accurate Life Hacks apre questa porta di negazioni e riconferme con una tristezza insita all’interno della piattaforma stessa, una tristezza disperata che Miller ha poi portato alle sue estreme conseguenze con i vari video collaborativi del 2016 (sui quali tornerò a scrivere, credo e spero, abbastanza presto, fuori festival, fuori sala); una tristezza umoristica, in realtà, che usa un intrattenimento trash per rispondere alla necessità della piattaforma stessa YouTube, piattaforma che dell’intrattenimento trash vive e che da esso guadagna da ormai più di una decade. Sono immagini marce ed amatoriali, ma che esprimono una qualche destrutturazione pop e deforme della realtà, realtà fatta di recitazione e sguardi in macchina, sangue e montaggi insensati. Si ride e si piange, ma a volte semplicemente si rimane senza parole di fronte alla maniera con cui Miller interagisce con il mondo, con Filthy Frank completamente alieno rispetto a tutto ciò che ha attorno – compreso sé stesso, compresa la macchina da presa.
Nicola Settis