MILANO 2015 (2015), di Elio, Roberto Bolle, Silvio Soldini, Walter Veltroni, Cristiana Capotondi, Giorgio Diritti
Tentare di scrivere una critica costruttiva su Milano 2015 non avrebbe il minimo senso, non essendo in alcun modo Milano 2015 un oggetto cinematografico. Disprezzabile sin dalle premesse -sei corti commissionati ad altrettanti discutibilissimi registi per pubblicizzare (millantare?) la grandezza e la bellezza del capoluogo lombardo nell’anno dell’expo- il prodotto non ha nemmeno un briciolo della dignità necessaria per essere avvicinato alla nobile Arte Cinematografica, preferendo immergersi in una prostituzione intellettuale squallidamente retorica, riconosciuta di interesse culturale dal Ministero e finanziata in larga parte con denaro pubblico, che non si riesce proprio a capire quale destinatario possa avere se non il bidone dell’immondizia. Non rimane, per approcciarsi ad un abominio così dichiarato, che l’arma dell’ironia. Ed ecco che le cadute, in un amaro sarcasmo, diventano momenti di involontaria quanto irresistibile comicità, la retorica si fa barzelletta, l’orrore si fa splendore. Rendendo Milano 2015, in un certo senso, un film-troll imperdibile.
Si parte nei tunnel della metropolitana, una corsa sotterranea che introduce gli episodi che si snodano totalmente scollegati in un’irresistibile profusione di droni che simulano dolly, madornali errori di montaggio e bordi stondati che denunciano un ampio utilizzo della gopro. Da quello di Elio -declinazione della retorica più ingenua con protagonista un cinese residente da anni a Milano, pronto ad auspicare una futura resurrezione della città mentre è impegnato in un giro notturno in bici per le vie e i navigli dal quale appaiono retoricissime frecce a indicare tutti i luoghi di cultura ormai chiusi- agli italiani di seconda generazione e ai fotografi artistici secondo Silvio Soldini (memorabile l’autocompiaciuto “Questa è la madre di tutte” esclamato dall’artistoide dinanzi ad una sua dispositva), per passare all’importanza del Corriere -nella discutibile esaltazione del direttore Ferruccio de Bortoli nei giorni dell’elezione di Mattarella- secondo Cristiana Capotondi. Fino alle suore di clausura che spiegano il mondo nell’episodio di Diritti, ponendo a chiusura della marchetta a dodici mani la faccia di bronzo di chi sostiene espressamente di non interessarsi al vil denaro, ma a proporre la bellezza. Risulta bizzarro, in questo calderone di pubblicità e retorica al limite dell’offensivo, inconsapevolmente capace di risultare oltremodo spassoso, come l’episodio nettamente meno peggio sia quello firmato dal ballerino Roberto Bolle, tutto sommato sincero nel filmare le mille sfaccettature del Teatro alla Scala, dalle scuole di danza alla creazione di scenografie e costumi, dalle dure prove alla prima del balletto, mostrata rigorosamente da dietro le quinte.
Ma è l’episodio di Walter Veltroni quello che merita maggiore attenzione, confermando tutta la pericolosità cinematografica dell’ex politico. Quello di Veltroni è un cinema profondamente insincero, capace di far coesistere lo squallore del dilettante e la spocchia di chi si crede un grande autore. Dopo la politica di Quando c’era Berlinguer e l’infanzia de I Bambini Sanno, il “regista” romano affronta la sua terza passione: il ciclismo. A questo punto, come prossima incursione del Walter nazionale nell’audiovisivo, ci aspettiamo qualcosa che decanti la pulizia dei successi della Juventus. Il suo è un documentario televisivo, a lunghi tratti patetico, sullo storico velodromo Vigorelli, in passato scena di storici inseguimenti, ora un reperto storico in disuso e parziale rovina. Fra voli di droni, musiche in un crescendo di violini e pianoforti che paiono prese direttamente dagli outtakes di A Beautiful Mind, vecchie biciclette, statuine appoggiate sul legno e interviste al gestore dell’officina annessa, Veltroni passa in rassegna con una banalità sconcertante la storia dello storico velodromo, dalle corse di Coppi al concerto dei Beatles, riuscendo infine a spacciare la sua caducità per atto di resistenza, mentre accanto al Vigorelli la città cambia e sorgono i grattacieli.
Tornando seri, le crasse risate scaturite dalla proiezione sono in realtà amare, sardoniche, risate per non piangere. In un mondo produttivo come quello italiano, a metà fra le lacrime di coccodrillo per la morte in povertà di Claudio Caligari e la costante freddezza nei confronti di chi è ancora vivo e resiste davvero, è semplicemente una vergogna che possano trovare finanziamenti pubblici e circolazione opere del genere. Prendendo le mosse da Milano83 di Ermanno Olmi, essenziale documento storico e grandissimo film su una metropoli multiforme e operosa, fra il sudore dei lavori notturni e gli sguardi delle madri in metropolitana, Milano2015 non solo sconfessa appieno la sincerità e la potenza espressiva del lavoro di Olmi, ma ne modifica radicalmente la struttura, piazzandosi a metà fra l’ennesimo spot per l’expo e Linea Verde. Ma è al contempo un film da vedere, per capire molti dei motivi che hanno reso ormai da parecchi anni, salvo rare eccellenze, il glorioso Cinema italiano una creatura agonizzante. Milano2015 è un lavoro eticamente e cinematograficamente inaccettabile, ma che ci sentiamo di consigliare a chiunque abbia il necessario sarcasmo per riderne. Perché la risata, in questo ambito, è forse l’unica arma che ci è rimasta. E speriamo che possa seppellirlo.
Marco Romagna