6 Settembre 2024 -

YOUTH (HOMECOMING) (2024)
di Wang Bing

È giunto il momento in cui definitivamente imparare a chiamarli per nome, i vari Shi Wei, Jin Cheng, Hu Fei, Dong Mingyang, Yin Yikun, Xiao Dong, Lin Shao e Fang Lingping che si alternano nel terzo e meraviglioso capitolo, Homecoming, che chiude la trilogia Youth e i cinque anni dedicati da Wang Bing, fra osservazione e condivisione, alla appunto giovanissima classe operaia impegnata nel settore tessile della Cina contemporanea. Non più, come (necessariamente) nel lavoro di ritratto collettivo e mappatura del primo Spring, semplici pedine sostanzialmente intercambiabili e quindi in qualche modo spersonalizzate di un sistema di sfruttamento a cottimo che prosciuga le loro oltre trecentomila identità in cambio di pochi centesimi a pezzo cucito, ma esseri umani unici con cui stringere un rapporto sempre più empatico e reciproco di crescente fiducia e di intima partecipazione emotiva, ancora più profondo che nel momento di lotta e dignità del mediano Hard Times. La tappa finale (e nettamente più breve nei suoi ‘soli’ 152 minuti dopo le quasi quattro ore a testa degli altri episodi) di un percorso condiviso in cui osservarli dentro ma soprattutto fuori dalla fabbrica, sul lavoro ma soprattutto nel momento di relegarlo sullo sfondo per tornare almeno temporaneamente ai sogni, ai sentimenti personali, alle serate, ai pasti, alle cerimonie, agli spiragli di felicità, a casa. E inevitabilmente al tempo che passa, cambiando inevitabilmente le persone come quando quegli stessi ragazzi che nel 2016 affrontavano impacciati e giocosi i primi giorni in sartoria sbagliando tagli e cuciture si ritroveranno due anni dopo a battere freneticamente sulla calcolatrice le cifre della loro folle corsa alla produttività più estrema, o come quando un padre, di fronte alla gigantografia di Mao che ancora campeggia sulle pareti della sua casa, ricorderà i tempi in cui toccava a lui partire e guadagnare a sufficienza per sfamare la famiglia. Tanto che le scritte in sovraimpressione che lungo tutto lo scorrere del progetto indicano nome, età e provenienza dei ragazzi e delle ragazze, qui si soffermano su di loro e sui loro consanguinei ad aggiungere ulteriori dettagli sui loro legami, sui loro rapporti affettivi e di parentela, sul loro crescere insieme, sul loro ripercorrere la stessa identica vita dei loro genitori già consci di non poterne in alcun modo garantire una migliore ai figli, ma non per questo sconfitti o meno vitali.

È la chiusura di un monumentale percorso politico, cinematografico e umano Youth (Homecoming), così netto ed evidente nel suo progressivo procedere dalla testa al cuore, e quindi da un Wang in qualche modo wisemaniano e grandangolare nell’affrescare la Cina contemporanea (o per meglio dire nel comporne il mosaico come insieme di tasselli da guardare nel loro disegno complessivo), a quello straripante e commosso di Feng Ai e Ta’ang che riemerge ora nel suo concentrarsi sulle singole tessere che lo compongono lungo il passare degli anni e dei luoghi. Un film in cui lo sguardo unico e commovente del grande documentarista cinese continua a girare attorno ai laboratori tessili della periferia di Shanghai eppure scarta ancora, per posarsi questa volta su sensibilità e affetti di quel campionario umano diventato nel frattempo “i suoi ragazzi”. Inseguiti, come nei finali dei primi due capitoli, fino alle loro case d’origine e alle loro famiglie da ritrovare, con cui confrontarsi e magari da allargare nell’amore, nel matrimonio e nella gioia della genitorialità anche a costo di ribellarsi apertamente alla politica del figlio unico, ma poi questa volta riportati inevitabilmente indietro verso la città lontana e le sue minacciose macchine da cucire, dietro alle quali dover passare un altro intero anno prima di potere di nuovo staccare e ricominciare a viaggiare. Una ciclicità che apre all’inquietante prospettiva – Homecoming sì ma verso dove? Quale è la vera andata e quale soprattutto il vero ritorno? – di non sapere proprio più quale sia, la casa in cui tornare. Se quella delle brevi vacanze di capodanno verso i villaggi natali rurali o quegli squallidi dormitori delle lunghissime assenze per lavorare nelle fabbriche delle grandi metropoli. Se quella della tradizione o quella della modernità. Se quella degli affetti o quella della quotidianità lontana in cui magari trovare il conforto di nuovi affetti. In qualche modo condannati a sentirsi sempre ospiti, di una realtà che non può essere (più, ancora, temporaneamente, mai) in alcun modo la loro. Del resto non potevano che chiudersi con un assunto pienamente politico, Youth (Homecoming) e in generale la trilogia con cui Wang Bing, dopo avere presentato Spring a Cannes 2023 e Hard Times poche settimane fa a Locarno, completa con la partecipazione al concorso principale dell’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il disegno, a sua volta pienamente politico, di raggiungere un pubblico più vasto possibile spalmando la sua mastodontica opera fra i differenti pubblici dei principali Festival europei. Con un progetto di sguardo, di umanità, di vicinanza (quando necessario anche col fiatone), di assoluta partecipazione, di vera e propria militanza, sempre (più) a fianco dei suoi protagonisti nell’emergere della loro coscienza di classe, poi nel loro (per quanto è possibile sotto la doppia dittatura di Xi Jinping e del capitalismo contemporaneo) ribellarsi, e adesso nel loro doppio ritorno alle campagne e poi ancora alla fabbrica.

Un (eterno) ritorno che a ben vedere è il cuore di ciò che raccontano tutti e tre gli Youth, e in particolare di questo conclusivo Homecoming con cui Wang completa la sua lettura politica e poetica di un’intera generazione di novelli Bitter money tracciando attraverso le loro traiettorie (geografiche, emotive, domestiche, di vita) al di fuori della fabbrica quelle dell’intera Cina. Gli basta stringere (verso la dimensione umana e familiare dei singoli) e proprio così al contempo allargare (dalla città all’intera provincia rurale di ieri, di oggi e del più prossimo domani) il campo del suo sguardo. Con una gestione del racconto e dei racconti, singoli e collettivi, che fa liberamente avanti e indietro nel tempo senza che ci sia spazio per nulla di lineare, perché quello che conta è proprio l’eterno ripresentarsi delle medesime situazioni e delle medesime tematiche nel corso degli anni, in una (ir)regolare circolarità apparentemente immutabile. Tanto dal 2014 al 2019 delle riprese quanto dai nonni ai bambini che affollano la stessa abitazione di campagna, tanto nel fluviale progetto complessivo di Wang Bing quanto all’interno di ogni singolo capitolo – perfettamente coerente eppure totalmente peculiare e differente dagli altri – che lo compone. In un continuo intrecciarsi di (micro/macro)storie sempre diverse eppure sempre uguali di sfruttamento e di capitalismo di Stato, di nuclei abitativi in cui ammassarsi e di datori di lavoro che non pagano, di turni massacranti e di cuciture sempre più veloci, di abusi di polizia in un Paese dove nessuno può dire nulla contro il governo e di necessità per cui nemmeno una diagnosi di tubercolosi può allontanare dai banconi da lavoro. Ma anche di una ben precisa consapevolezza dalla quale imparare reciprocamente a sostenersi, a cooperare, a sedersi allo stesso tavolo per mangiare e decidere di percorrere almeno un pezzo del proprio percorso di vita realmente insieme, capaci nonostante tutto di essere felici. Un’unione che è tanto evidente fra gli operai che si sindacalizzano o che si amano, quanto con Wang Bing che li osserva e che, condividendo con loro le giornate, le fatiche, le famiglie, i viaggi, i matrimoni, le emozioni e la crescente preoccupazione quando l’anno successivo nessun laboratorio sembrerà avere bisogno di personale, dialoga e interagisce sempre più in profondità con loro, mentre il suo sguardo etico e lucidissimo trova tanto l’emblema del discorso politico quanto la poesia del quotidiano. C’è chi sta per avere un bambino (e ora viaggia accoccolata e protetta dal futuro marito sul pavimento di un treno sul quale sedersi costa troppo), e c’è chi non ha mai imparato a lanciare con la canna da pesca. C’è chi ricorda un amico ucciso da un colpo di sonno dietro alla macchina da cucire e c’è un padre che si rende conto di stare invecchiando e chiede al figlio di restare. Ci sono i fuochi d’artificio con cui festeggiare il capodanno e le stelle filanti spray con cui festeggiare i nuovi sposi. Ci sono gli amici, i parenti, le madri, le nonne, le mogli, i bambini da tenere nascosti. E poi ci sono i pulmini con cui superare le montagne per arrivare a casa, sulla neve e poi su tortuose strade sterrate magari bloccate da un qualche ostacolo che costringe a fare un altro giro. Del resto lo stesso cinema di Wang Bing sceglie da sempre percorsi alternativi alla prassi, sempre politicissimo e sempre di cuore, sempre di rapporti umani e sempre di sguardo, sempre inequivocabile e sempre magnificamente lirico. Sempre miracoloso, ma questa volta forse ancora più del solito.

Marco Romagna

“Qingchun: Gui” (2024)
152 min | Documentary | France / Luxembourg / Netherlands
Regista Wang Bing
Sceneggiatori Wang Bing
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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