«Forse non sarà una canzone
a cambiare le regole del gioco
ma voglio viverla così quest’avventura
senza frontiere e con il cuore in gola»Edoardo Bennato, Gianna Nannini, Un’estate italiana (Notti magiche)
Inizia e termina con uno sguardo sull’avvenire What do we see when we look at the Sky?, secondo lungometraggio del georgiano Alexandre Koberidze ospitato nel concorso pesarese 2021 dopo il premio della giuria FIPRESCI alla settantunesima Berlinale per l’orchestrazione della sua personale “sinfonia di una grande città”, che questa volta non è quella che ospita l’Orso ma la georgiana Tiblisi che gli ha dato i natali. Un incantesimo cinematografico che parte da una citazione di Rezo Cheisvili, scritta in bianco su sfondo azzurro ad accostare quei colori pronti a tornare costantemente, ogni volta in cui la storia o le storie si srotoleranno sullo sfondo dei mondiali di calcio che, al termine delle loro nuove notti magiche, vedranno vincitrice proprio l’Argentina di Messi di cui facilmente si ricorda la maglietta. Ed è già dai primi secondi che si intuisce che cosa sarà il film.
L’uscita dei bambini da scuola in qualche modo già rappresenta di per sé un’apertura a quel domani a cui i futuri adulti si stanno preparando e che tornerà nel finale, e sin da subito denota quella modalità di osservazione che il regista aveva già abbracciato con il precedente Let The Summer Never Come Again (2017) e che si ritroverà come costante dell’opera. Ma è anche una strizzata d’occhio al concetto stesso di cinema, in quanto eco moderna delle origini della settima arte e della celeberrima uscita di operai da quella fabbrica di lumeriana memoria. Eppure non è certo un caso che questo incipit dal sapore quasi documentaristico segua le parole dello scrittore georgiano sopra citato, «These morons have never seen a raven, Guia A. thought, but you couldn’t notice anything on his face». Parole che in realtà non troveranno una spiegazione nell’arco di tutta l’opera, ma che colorano da subito il film di una tonalità precisa, quella del mito, della leggenda e della favola, che come sempre occupa un posto nell’immaginario collettivo a metà tra l’inquietante e il rasserenante. Il riferimento al corvo colpisce immediatamente: storico guardiano delle leggende norrene del dio Odino e di quelle più recenti scaturite dalla penna di George R. R. Martin, spesso associato alla morte e all’inquietudine, è in realtà più in generale un simbolo di passaggio e metamorfosi. Ed è a questo aspetto leggendario che si aggrappa il film di Koberidze, amalgamando delicatamente, in un realismo magico che intreccia le vite e i sogni, i volti dei mille pedestri che abitano intorno al sempre un po’ arrabbiato fiume Kura al racconto più specifico della stregata trasformazione fisica di Lisa e Giorgi, il cui amore viene messo alla prova da una maledizione che rende la loro «una delle innumerevoli e non meno eccitanti avventure che succedono tutti i giorni intorno a noi».
Il film è dunque una costante giustapposizione tra fiaba e realtà, tra magico e verosimile, tra racconto e vissuto. Più in generale è però una riflessione sul concetto stesso di arte, di voyeurismo, di metanarrativa, fatto di racconti nei racconti e di passaggi tra osservante e osservato, soggetto e oggetto che costruiscono il puzzle di uno degli innumerevoli nuclei abitativi in cui uomo, natura e animali convivono più o meno pacificamente. E poi c’è l’amore imprescindibile per le immagini, per la narrazione, per l’umanità di chi si dona all’obiettivo. Non esistono preferenze e distinzioni per la macchina da presa di Koberidze. La camera segue con la medesima curiosità i protagonisti (che hanno qualcosa dell’ingenuità stralunata di quelli di Kaurismaki e un tocco del surrealismo di Andersson) così come tutti coloro di cui non si scoprirà neanche il nome, ma del cui animo sarà comunque possibile intuire qualcosa grazie a una regia presente, personale ma imparziale e in qualche modo vicina agli esperimenti della penna modernista, di cui è forse calzante l’esempio della londra woolfiana di Mrs. Dalloway. Come nel capolavoro letterario del 1925, è di nuovo la città a unire i passanti, la cui interiorità viene scrutata grazie ai continui salti del tunnelling process nella stessa maniera in cui il regista georgiano passa di continuo dai personaggi centrali agli sconosciuti in cui questi incappano nel loro cammino casuale, o più in generale a uomini senza nome che in quel momento abitano la capitale georgiana, in un film in cui anche le statue hanno un’anima. La storia dei due amanti senza volto sembra allora quasi pescata a caso tra le tante facce di passaggio, al punto che i due non vengono mostrati subito ma di loro si vedono solo i piedi mentre sbagliano tre volte direzione durante quel primo incontro galeotto e fortuito motore di eventi indecifrabili. Un incontro commentato e forse voluto dalla natura, sia viva che morta, sempre partecipe e da subito affezionata a Lisa. E’ proprio infatti a un bivio, stradale oltre che metaforico, che una piantina da marciapiede, una videocamera di sorveglianza, una grondaia per lo scarico delle acque piovane e il vento decidono di mettere in guardia la giovane dal pericolo di quell’occhio malvagio che osserva e maledice questo neonato amore, caratterizzandosi come una versione in qualche modo metropolitana dei quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco, qualora si decidesse di considerare la videocamera, non a caso lampeggiante di infrarossi, in qualche modo accostabile a quest’ultimo – in fondo a riecheggiare è il medium del cinema, e quindi del fuoco dell’arte. Una partecipazione amica di un mondo materiale, naturale o sovrannaturale ma a ogni modo umanizzato, che rimarca ancora una volta l’approccio favolistico pronto a emergere sempre più trasognante in un film che ha come tappeto sonoro la soavità trasognata e turbatrice dell’arpa, e che regala a questa scena il sapore di un ricordo d’infanzia. Dai topini di Cenerentola ai granchi de La Sirenetta, fiabe e cartoni animati abbondano infatti di esseri o cose inumane che diventano umane poiché rivestite del sacro ruolo di aiutanti del protagonista in difficoltà. Peccato che in questo caso il rumore di una macchina si frapponga tra la voce del vento e le orecchie della ragazza, che così non saprà che la maledizione che l’ha colpita e che le cambierà completamente le fattezze in una sola notte sarà una sorte in realtà condivisa con l’amato, anch’egli in un giorno trasformato in un altro. I due innamorati “a prima vista” si vedranno quindi tolta la possibilità di vedersi e riconoscersi, spinti sulla strada del topos tipicamente epico su cui tutta la storia è incentrata che è quello dell’agnizione, quel riconoscimento che può essere tra padre e figlio, marito e moglie, nemici e amici, cane e padrone, e che in qualsiasi versione si presenti è costante mitologica.
E’ la voce dello stesso Koberidze ad accompagnare il film come narratore onnisciente, con un vero e proprio racconto da cantastorie che coinvolge quel pubblico a cui si rivolge con la confidenza paterna che si userebbe nel raccontare ai bambini una favola intorno al fuoco e con la fermezza garbata di una guida che talvolta rompe la quarta parete e apertamente ingaggia lo spettatore, rivolgendogli inviti anche tramite indicazioni scritte. Al pubblico, per esempio, viene richiesto di chiudere gli occhi per non assistere alla metamorfosi notturna che l’incantesimo ha decretato, stratagemma personale con cui l’autore si rapporta al fantastico o forse all’osceno, secondo quella probabilmente fasulla etimologia popolare che letteralmente riserverebbe “fuori dalla scena” teatrale eventi troppo forti per la platea. Se la storia avviene e non si può eclissare, è allora chi osserva a doversi fare momentaneamente da parte.
Ignari di questo destino condiviso e ormai diversi per quanto dentro sempre uguali e ugualmente mossi dal desiderio per l’altro, Lisa e Giorgi si presentano al luogo dell’incontro pattuito la sera prima (quel famoso bar vicino al ponte bianco, fulcro della vita cittadina e presto della loro) e ovviamente non si trovano. A partire da questo momento ad avvicinarli gradualmente sarà il caso, anche se forse è meglio parlare di un destino affidabile (osserva la ragazza: «chances are trustworthy») quando non di una collaborazione sorda e sottobosco tra i luoghi della città, non solo palcoscenico ma anche attori e autori essi stessi delle vicende che ospitano. Pur accompagnati dal dolore per la presunta, umiliante e incomprensibile perdita dell’altro, i due sono ora infatti fisicamente e poi spiritualmente vicini proprio per merito di fattori esterni, dal nuovo posto di lavoro (nel tentativo di trovarsi entrambi decidono di farsi assumere dal proprietario del bar), alle prime strampalate commissioni da svolgere insieme (come ritirare una torta), fino addirittura al coinvolgimento in un film che segnerà l’agnizione finale. E in qualche modo è proprio il film nel film a offrirsi come terzo dei macrofiloni che la narrazione compendia: insieme alla vicenda di Giorgi e Lisa e alla più generale vita della città e dei suoi abitanti, Koberidze infatti inserisce le circostanze legate alla realizzazione di un’opera audiovisiva diretta dalla regista Nino, la quale invia la propria assistente a scrutare tra i volti (parola chiave dell’intera opera) dei passanti per trovare 50 coppie, di cui 6 saranno selezionate per popolare gli ultimi fotogrammi. E sempre un caso, di nuovo meglio traducibile dall’inglese chance che ingloba anche il significato di possibilità, fa sì che l’ultima coppia selezionata dalla giovane assistente alla regia sia proprio quella separata così brutalmente da quell’“occhio diabolico” sconosciuto che sarà sconfitto dall’occhio invece angelico della macchina da presa. Perché sarà proprio la proiezione finale sullo schermo a rendere manifeste le fattezze iniziali dei due giovani e a segnare il buon fine del percorso di ritrovamento, sancendo inoltre come l’arte non solo sia l’unica salvezza ma l’unico modo per vedersi veramente, guardarsi dentro e guardare gli altri. L’arte, il solo filtro in grado di annullare i filtri.
Si potrebbe considerare come su questa riflessione si rispecchi sulla struttura stessa del film e sul suo stile, al di là delle modalità letterarie di cui già è stato detto – non solo a livello di citazionismo che ritorna, si vedano ancora le poche righe tratte da Levan Chelidze che dividono la prima parte del film dalla seconda, ma più in generale per la presenza sonora di un io narrante. Lo spettatore è ingaggiato in un costante voyeurismo e guidato da una camera che ricorda non solo l’occhio, ma anche la mente umana e la personalità di chi racconta mentre guarda: si avvicina ai personaggi di scatto (frequenti gli zoom in avanti), stuzzicata da un dettaglio, e poi si allontana; si sofferma su qualcuno senza sentirlo per poi voltare lo sguardo catturata da altro, che sia un cane, una statua o una vecchietta con le buste della spesa; mostra quello che vedono gli occhi di un uomo che legge per poi tornare occhio assoluto però mai più oggettivo; rallenta i suoi ritmi come imbambolata a fissare una partita di pallone tra ragazzini (magari lasciando esplodere all’improvviso le voci di Edoardo Bennato e Gianna Nannini in quello che fu lo straordinario inno di Italia 90) e poi riprende un tono normale, come disincantata. Ma Koberidze va ancora più a fondo, e non solo inscena lo sguardo nello sguardo, ma insiste in quel percorso di piacere estetico che è poi in fondo un po’ la base dell’arte. Costruendo veri e propri “quadri”, come oli su tela quasi immobili che mostrano una natura morta, fra una di nuovo fiabesca tavola imbandita di torte e dolciumi o una teiera, un primo piano in grado di racchiudere l’essenza di un uomo con l’accuratezza del Mantegna o la semplice scena di vita quotidiana di un abitante qualsiasi, di cui però rende intuibili almeno per un attimo sogni, aspirazioni e delusioni, con quella stesso potere inspiegabile per cui guardando L’Assenzio si comprende in un istante tutta la vita della donna dipinta da Degas.
Il film è sospeso sul filo di un incanto senza tempo e promette una dimensione storica costantemente disattesa, che culmina in quella finta precisazione che interrompe la narrazione mentre la camera segue un pallone che scorre nel fiume e la voce del regista dichiara nel suo excursus di rivelare «at what time the events we observe took place», limitandosi però semplicemente a puntualizzare «the time was brutal, merciless», prima di ritornare alla narrativa. Questo atteggiamento arricchisce il film di una grandezza metastorica, dal momento che ogni tempo che ricordiamo è brutale e senza pietà, e quindi questa favola moderna si adatta bene a qualsiasi epoca. È il finale a confermarlo, nel momento in cui si perde traccia dei protagonisti dopo il loro lieto fine per lasciare ora spazio solo alla città. A chiudere tutto è il gruppo di aspiranti calciatori, che ritorna ciclicamente nel film. Ripresi dal basso e con una pennellata gialla sulla schiena che recita “Messi 10”, salgono una gradinata accompagnati dal voice over conclusivo che altro non è che una provocazione lanciata dal regista circa il ruolo degli autori e dei soggetti scelti per essere rappresentati e la loro utilità o meno nella società, oltre ad essere un monito su come le cose incredibili e inappropriate succedano davvero, «rarely, but they do». I bambini rimarranno fermi e vivaci ad osservare la statua di un cavaliere che regge una spada e una casa, la guerra e la pace: la storia dell’uomo passata e presente, di cui loro, inconsapevoli, costituiscono il futuro. Forse è questo quello che si vede quando si guarda il cielo: semplicemente tutto.
Bianca Montanaro