Dopo 94 anni è ancora l’occhio tagliato di Buñuel la perfetta metafora del cinema che vuole aprire l’occhio dello spettatore verso ciò che da solo non riesce a vedere, o magari come in questo caso verso un altro punto di vista da cui ridare un significato nuovo e nuova vita a ciò che si conosce, ma che non ha ancora finito di esprimere le sue infinite potenzialità. È per questo che non stupisce affatto trovare anche quel ben preciso momento di Un chien andalou in mezzo alla Babele di immagini, non a caso osservate e tagliate, con cui il critico, teorico e cineasta sperimentale ungherese Péter Lichter edifica il suo affascinante e radicale The mysterious affair at Styles. Immagini tratte da centouno film in grandissima maggioranza muti, pietre miliari più e meno note che vanno dai primi esperimenti dei Lumiére del 1895 fino al 1933 de Il testamento del dottor Mabuse ultimo lavoro tedesco di Fritz Lang, passando per i lasciti in celluloide di Méliès e Dziga Vertov, di Dreyer e di Griffith, di Chaplin e di Keaton, di Browning e di Ėjzenštejn, di Hitchcock e di Wiene, di von Stronheim e di Murnau, e poi ancora di Abel Gance e di King Vidor, di Jean Epstein e di James Whale, di Frank Borzage e di William Wellman. Eppure lo schermo tripartito del Napòleon non è più (necessariamente solo) lo schermo tripartito del Napòleon, i passi visti da sotto il pavimento non sono (necessariamente) quelli de Il pensionante giunto proprio fra gli omicidi delle Riccioli d’Oro, e perfino L’uomo con la macchina da presa riflesso nell’occhio dell’obiettivo può non essere (necessariamente) Mikhail Kaufman alla presa con la manovella. Sono semmai puri segni semiotici, immagini come significanti decontestualizzati e alla ricerca di una nuova drammaturgia che dia loro un nuovo significato, forme pronte a reinnestarsi in una nuova forma con cui abbandonare un contenuto per abbracciarne un altro, e proprio per questo immagini da conoscere, da analizzare, da amare, ma anche da avere il coraggio di distruggere fra porzioni di varia forma e innesti grafici dei primi videogiochi, fra montaggi vorticosi e repentini spostamenti, fra libere ricombinazioni e del tutto differenti riproposizioni. L’unico modo per poi poterle ricostruire, per ricontestualizzarle, per farle riemergere dal passato e vivere ancora in una nuova creazione che, a un secolo di distanza dalla loro realizzazione, le rende in qualche modo inedite, mai viste, totalmente da reinterpretare. Come un occhio ancora tutto da aprire.
Come già nel 2020 nel suo interessantissimo film saggio The Philosophy of Horror: A Symphony of Film Theory, in cui Péter Lichter rifletteva sull’horror attraverso il montaggio delle immagini ormai quasi astratte di due copie in sindrome acetica di Nightmare e Nightmare 2, è anche qui la pellicola il punto di partenza da spezzare, affiancare, ribaltare, sovraimprimere, rielaborare, per molti versi riscoprire. Quell’emulsione che ancora tiene intrappolata nella sua luce le immagini in cui trovare nel found footage il materiale visivo con cui mostrare la vicenda tratta dall’omonimo romanzo d’esordio di Agatha Christie, noto in Italia come Poirot a Styles Court, con l’ausilio della sceneggiatura adattata da Bence Kránicz nella forma di un monologo, recitato in voce off da Pál Mácsai, con cui l’iconico detective belga ripercorre e risolve il caso. Attraverso immagini che nel loro costante ricombinarsi a volte seguono e permettono di visualizzare quello che racconta la voce narrante, e che invece altre volte creano intelligentemente contrasti, giustapposizioni, rifrazioni. Come a sottolineare come in loro – e quindi nel cinema muto, nel suo scibile, nelle sue sperimentazioni e nel suo pionieristico immaginario ormai in larga parte sommerso – ci fosse in potenza già tutto il raccontabile, tutto il cinema successivo, tutto ciò che sarebbe venuto dopo. È probabilmente per questo che Lichter, nel film presentato nella sezione Harbour dell’International Film Festival Rotterdam che torna finalmente dopo tre anni, con in mezzo due edizioni annullate per cause pandemiche, in presenza e in piena forma nella ventosa città olandese, le mette in dialogo con il mondo – altrettanto vintage, in un’evoluzione ancora più veloce – dei videogiochi dei primi anni Novanta, perfetti con le loro grafiche essenziali e geometriche per canalizzare l’attenzione su un particolare oppure sull’altro, o ancora per trasformare in vera e propria battaglia l’indagine dell’investigatore belga contro il geniale complotto ordito dal vero assassino.
Una storia, quella immaginata nel 1916 dalla scrittrice britannica, non solo per il tempo ma forse ancora oggi assolutamente rivoluzionaria, capace di combinare la (reale) scienza con cui ritardare il principio attivo della stricnina con le falle legali di un sistema in cui non si può essere giudicati due volte per il medesimo reato, e che la voce fuori campo di The mysterious affair at Styles analizza nei brevi titoli dei capitoli che puntellano e danno respiro al lungo monologo come fasi non tanto dell’indagine, quanto del percorso narrativo che tutti devono affrontare, sia il personaggio di Poirot che ricostruisce dall’inizio il mistero sia il romanzo che lo ha immaginato, fino alle immagini del film che lo rimette in scena senza girare un solo fotogramma, ma mettendo sullo schermo – o, molto più spesso, sul multischermo – tutto ciò di cui la narrazione necessita. Senza bisogno di assegnare un volto a ogni personaggio, senza mai cercare la mera descrizione, e in realtà senza nemmeno che alle parole debba necessariamente corrispondere la stessa azione o la stessa situazione. Sono le emozioni, ciò che conta. Sono gli spazi e le porzioni, sono le ricombinazioni simultanee di diversi frammenti, sono l’atto stesso di ricostruire, gli eventi della storia di finzione come le immagini dei vecchi film. Un vero e proprio puzzle di inquadrature e di tecniche di montaggio, di personaggi e di situazioni, di tavolate e di manovelle in costante e sempre inedita ricombinazione. Fra ritagli tondi e geometrie con cui ripartire lo schermo in infinite porzioni, fra impronte, lettere e illimitati spazi possibili, fra volti, schiene e oggetti di scena, fra negativi, specchi e inquadrature che fioriscono all’interno di altre inquadrature, che dialogano con quella vicina, e che insieme costruiscono una storia-altra, un nuovo immaginario, un nuovo cinema. Magari digitale, ma in cui le perforazioni non hanno mai smesso e non smetteranno mai di scorrere. L’Avanguardia è sempre passata da loro, ventiquattro volte ogni singolo secondo. Non smetterà certo ora.
Marco Romagna