LA CASA DI JACK – THE HOUSE THAT JACK BUILT (2018), di Lars von Trier

C’è una sostanziale differenza fra un ingegnere e un architetto. L’ingegnere è un costruttore, è un tecnico, è un «ottimo musicista» capace di leggere uno spartito e di eseguire alla perfezione qualsiasi sonata più o meno complessa. L’architetto, invece, è quello che la musica sullo spartito ce l’ha messa, l’ha scritta, l’ha inventata, alzandone progressivamente, modulato sulla sua crescita artistica e personale, il grado di complessità. L’architetto è la mente, è l’ideatore, è colui che ha trasformato la sua ispirazione in atto creativo, in linguaggio, in cattedrale, in simbolo iconico, in arte, dapprima semplice impulso sul quale trovare applicazione, e poi vera e propria materia di studio nella costante ricerca del proprio miglioramento, in un procedere progressivo e costante verso una sempre maggiore sofisticatezza. Quella sofisticatezza linguistica e tematica che deflagra sempre maggiore nelle opere/atto creativo di Lars von Trier – tornato persona grata ma evidentemente non troppo in una Cannes che lo relega fuori concorso e precauzionalmente, dopo le dichiarazioni provocatorie e non capite di sette anni fa, preferisce non insistere per organizzare la conferenza stampa per il suo film –, e quella sofisticatezza omicida del suo (mai così) esplicito alter ego Jack, ingegnere solo, ossessivo-compulsivo, profondamente intelligente e depresso che vorrebbe essere architetto, e per il quale l’atto creativo, l’estro, la liberazione, il processo di crescita, l’affermazione, l’autodeterminazione o, se vogliamo riassumere in una parola, il film, non può che essere l’omicidio. Si fa chiamare Mr. Sophisticated, o per lo meno i giornali e chi li legge, e quindi il pubblico dei suoi omicidi/installazione, lo chiamano Mr. Sophisticated, è dissociato ai limiti della follia ma è sempre perfettamente razionale, lucido e matematico nelle sue azioni, ama comporre e mettere in posa le sue vittime per scattare foto artistiche e per sentire così il fluire via almeno per un po’ della sua paura «da lampione a lampione», e nel frattempo sogna di progettare e costruire la casa perfetta in cui ritirarsi in un piccolo paradiso terrestre immerso nel verde, un po’ l’Eden di Antichrist prima che si riveli covo del maligno, di sua proprietà. The house that Jack built, nuovo e mirabolante capolavoro di Lars von Trier con cui il controverso regista danese ritorna a tutto il suo cinema per estrapolarne il senso più intimo e ancestrale, è il definitivo mettersi a nudo del suo autore esplicitando sempre più e portando alle massime conseguenze i doppi e le ambiguità, ma anche l’autoanalisi e la viva depressione, su cui si è sempre fondato il suo cinema. Il regista/autore/artista Lars von Trier si trasfigura nel serial killer Jack (come il celeberrimo Squartatore, ma anche come il “jack”, parola inglese per delineare il cric dell’auto che sarà fonte della primordiale ispirazione dell’artista/assassino e prima arma del delitto) affidando la sua proiezione allo sguardo inquietante di Matt Dillon; i suoi (da sempre divisivi e contestati) film sono gli omicidi sempre più perfezionati, artistici e raffinati del suo personaggio; il fuoco della macchina da presa è il fuoco del mirino del fucile, e la manipolazione che il cinema compie sui suoi spettatori/vittime è la stessa che Jack compie, prima e dopo la morte, sui suoi bersagli per scattare immagini che avranno a loro volta un’altra specularità, quella del negativo fotografico, in cui poter vedere, fra le ombre opposte e una maggiore intensità, la «luce oscura».
Già, la «luce oscura», quella del Male, quella che inevitabilmente, come molto spesso nella filmografia di Von Trier e in particolar modo nella Catabasi dell’Epilogo, condurrà fino agli inferi. È proprio con la «luce oscura» che si apre The house that Jack built. In luogo del consueto prologo c’è il nero, un nero assoluto di rumori sinistri e di lamenti confusi, con le voci di Jack e dello sconosciuto e misterioso Verge che iniziano a dialogare. Verge, con le parole di Jim Morrison, chiederà a Jack di mostrargli «the way to the next whiskey bar», e Jack si racconterà e racconterà il suo progressivo raffinarsi come serial killer nel corso di cinque “incidenti” proprio come nei 5+3 capitoli in cui si era raccontata la Nymph()maniac di Charlotte Gainsbourg. Non sapremo mai chi sia realmente il misterioso interlocutore di Jack. Nell’ultima sezione lo vedremo con il volto e le membra del sempre gigantesco Bruno Ganz, ma non sapremo mai se si tratti di un’allucinazione di Jack, della voce della sua coscienza, di un sogno/incubo, o forse è ancora un ulteriore doppio di Lars Von Trier, quello che si autointerroga, quello che cerca di capire la propria e altrui natura. Quello che sappiamo è che il ruolo di ascoltatore di Verge, al termine dei cinque “incidenti” che condurranno all’Epilogo finale, sarà destinato a tenere fede alla storpiatura del proprio nome e a trasformarsi in un vero e proprio Virgilio, guida di Jack verso e nell’inferno, che poi nient’altro è che l’inferno di contraddizioni e di dolore della natura e dei comportamenti umani, e il ritorno sotto una luce inquietante degli eventi passati di fronte all’incertezza, alla chiusura e al vero e proprio terrore nei confronti del futuro. Perché quella dell’uomo è una natura che forse è malvagia, probabilmente è ambigua, ma senza alcun dubbio è dolente, timorosa, fragile anche quando apparentemente arrogante e mitomane, perché all’ὕβϱις, necessariamente, corrisponde sempre una Nέμεσις.
Lars Von Trier, del resto, usa da parecchi anni il cinema per autoanalizzarsi e per analizzare il suo profondo malessere depressivo, i suoi timori più ancestrali, il suo femminismo talmente radicato e doloroso da essere spesso equivocato in una paradossale accusa di misoginia – alla quale, sul tono della contro-provocazione, il regista farà rispondere il suo Jack accusato da Verge di raccontare solo episodi di femminicidio che le donne che ha ucciso sono «stupide», rilanciando così in faccia ai superficiali proprio quell’interpretazione superficiale contro cui le “sofisticatezze” dell’omicida Jack sono in un certo senso un atto di resistenza – quando invece la sua profusione di personaggi femminili fragili e ambigui nient’altro sono stati, nel corso di tanti anni e tanti film, che una declinazione del suo sentirsi donna e vittima. Ora, dalle vittime, von Trier passa al loro carnefice, e dalle sue molteplici flessioni al femminile torna a mettere al centro un uomo, al quale fa portare tutte le sue croci, tutte le derive della sua psiche e del suo morale, tutti i suoi stessi disturbi ossessivi, tutto il suo stesso egocentrismo, tutta la sua stessa megalomania, tutto il suo stesso narcisismo. E anche tutta la sua consapevole intelligenza, perché Lars von Trier è perfettamente conscio dei suoi problemi psicosomatici come dei suoi meriti umani e artistici, e il cinema, la sua arte, è la sua via per riuscire a razionalizzarli e analizzarli da un punto di vista in qualche modo esterno. The house that Jack built, ben prima che un horror episodico sull’evoluzione di un serial killer negli anni settanta alla ricerca dell’omicidio perfetto, è la summa della filmografia del controverso regista danese, è il suo film-testamento, è la risposta chiara e cristallina a tutte quelle accuse, ridicole, che lo hanno bersagliato nel corso di trent’anni di carriera, e che ancora una volta, fra pregiudizi e ottusità, una gran parte della critica sembra ostinarsi a voler portare avanti rifiutando a priori di provare a capire quello che è di gran lunga uno degli autori più indispensabili della contemporaneità.

Lars von Trier torna – con tanto di autocitazioni re-inserite nel montaggio – a Le onde del destino, a Dancer in the Dark, a Melancholia, a Idioti. Torna alla struttura narrativa di Nymph()maniac, torna alla casa senza muri di Dogville, e torna a quel bosco-Male assoluto di Antichrist, che però questa volta per procedere verso l’inferno parte da una caverna platonica, e prima della dannazione concederà per lo meno un ultimo malinconico sguardo all’irraggiungibile paradiso. Un paradiso che corrisponde all’infanzia, ma anche alla noia delle falci con cui un’umanità spersonalizzata, tutta uguale, taglia l’erba, tanto che già da piccolo, quando viveva nel Giardino dell’Eden e nemmeno lo sapeva, Jack preferiva soddisfare il suo sadismo da più forte recidendo le zampe delle paperelle. Nella sua visione della vita come entità malvagia e priva di anima contro cui le uniche armi rimaste in mano all’uomo (già sconfitto, ma mai davvero vinto) sono l’arte e/o la distruzione, The house that Jack built è un ritorno di Lars von Trier a tutto il suo cinema per innervarlo di nuovi sensi e di nuovi significati filosofici e psicologici al di sotto dei significanti, esplicitandone ancora di più il dolore, il femminismo, la dignità, la profonda etica straziata che emerge anche nei momenti più malvagi, più brutali, che poi nel caso del regista danese vuole dire più sofferti. Più ancora che dell’uccisione in sé, a Jack interessa che le sue vittime si rendano conto delle sue intenzioni, che lo guardino terrorizzate, gli confermino la sua forza mostrando l’umana debolezza, la propria intima distruzione. Il che, nel concetto deviato di “arte” in cui Jack vede la sua carriera di serial killer, è un qualcosa che va ben oltre alla mera volontà di predominio, ma che si innesta in un discorso più ampio, e più generale, sul ruolo stesso dell’arte, sulla sua forza nel convincere e nel creare un pubblico, sulla sua natura di arma nel manipolare chi ne fruisce. Ed è in questo ambito concettuale e filosofico che il regista torna anche a spiegare, proprio sugli schermi di Cannes, quella sua “comprensione” del nazismo (che poi, in realtà, nient’altro era che tirare in ballo gli ultimi giorni nel bunker di Hitler come metafora di chi era passato da comandare il mondo ad aspettare il rovesciamento e la morte) che, con la dichiarazione dei tempi di Melancholia, fu causa dei suoi anni lontano dalla Croisette, ufficialmente bandito fino alla clamorosa riammissione di poche settimane fa. Lo fa con la figura, i disegni e le opere di Albert Speer, fra gli architetti a cui anela l’ingegnere/assassino Jack proprio l’architetto personale di Adolf Hitler, un po’ per via del razionalismo psicotico necessario per poter elevare la più abietta azione umana a opera d’arte, un po’ perché anche il Male assoluto e la putrescenza umana possono essere genio, fascino, arte. Mentre da sempre, parallelamente a quella di regime, è da chi soffre che si sviluppa tutta l’arte di resistenza ai regimi, alle ingiustizie, ai mali del mondo. Perché l’arte è espressione, è libertà, è icona, è mito, è pericolo. Mentre Hitler si presenta anche di persona, con il footage che torna direttamente ai suoi palchetti, ma anche a quelli di Mao, di Stalin, di Mussolini prima vivo e poi dondolante in piazzale Loreto, perché l’egoismo, l’ignoranza diffusa e la superficialità del mondo non sono cambiati dai tempi in cui la cultura era vietata: il popolo ha perso, l’umanità è riarsa, il Male vince sempre.
E tutto questo non si può che constatare, incassare con dolore, come quando una madre verrà costretta a fingere gioia in un picnic con i suoi bambini appena uccisi. È un momento umanamente atroce, forse leggibile come “borderline” nel suo sadismo, ma assolutamente necessario per dipingere, in quello che è il terzo “incidente”, la mentalità psicotica ma mai realmente “folle” del dissociato, che poi è probabilmente lo spauracchio, il doppelganger/esorcismo nel quale chiudere tutto il male e l’aberrazione umana che Lars von Trier ha il terrore di poter diventare. È lo sguardo del regista a esplicitare la sua paura ancestrale e quindi il suo fine etico che non solo giustifica, ma rende necessari, i mezzi; è il suo linguaggio, che con la costruzione provvisoria e nervosa di un’inquadratura che nella macchina a mano continua a ridefinire il proprio campo, porta sullo schermo un continuo cambio di punto di vista che, come impaurito di fronte all’orrore della realtà, mai si ferma davvero sul sangue o sulle lacrime, ma cerca di capire dubbioso e titubante come poter provare ad andare avanti. E poi c’è l’“arte” di Jack (un po’ un Neil di Art Attack ma con i cadaveri anziché con le tovaglie) nella composizione funeraria inquadrata dall’alto, zenitale, estetica eppure di un senso così lontano dall’estetizzazione del dolore e della morte, e anzi dolorosamente consapevole della lucidità che sta nelle derive psicotiche e nella crescente sofisticatezza del serial killer/regista. Nella progettazione in sostanza architettonica degli omicidi/installazione/quadro/fotografia di Jack, così come nella progettazione architettonica della sua casa perfetta in un lavoro forse infinito nel quale i materiali saranno sempre quelli sbagliati e il progetto dovrà essere azzerato e ripartire da capo (o forse più semplicemente coincidere con l’altro, con gli omicidi, con i corpi gelosamente composti e conservati da anni in cella frigorifera), Jack agisce indisturbato sotto gli occhi di una collettività che non vuole rendersi conto dell’ovvio. Perché è un ovvio che fa paura, e perché è un ovvio del quale tutta la società è responsabile.
Lars von Trier non è mai (checché se ne dica) vuoto provocatore, non è mai, per quanto si diverta a farlo pensare nelle interviste-troll che ne alimentano il personaggio, realmente crudele. Si considera semmai una vittima e un testimone della crudeltà, e la mette abitualmente in scena come si mette in scena un’ossessione bruciante. Un’ossessione fatta di paure e di depressioni, di amarezza e di disagio, tutt’al più di pessimismo cosmico e nichilismo, e non certo un motivo di gioia e orgoglio, non certo un’occasione di cinismo e altezzosità. Ragionare con il mezzo cinema sulla crudeltà non vuole necessariamente dire essere crudeli, e anzi il regista danese nelle sue esplorazioni degli interstizi più oscuri dei rapporti e della psiche umana si è sempre dimostrato esattamente al contrario un fine psicologo, un fine antropologo, un fine filosofo, un fine umanista ben al di là dei riferimenti artistici (il gotico, Goethe, Dreyer, Glenn Gould come simbolo stesso dell’arte, Bob Dylan che cambia i cartelli con il testo e persino un insistito Vivaldi nella colonna sonora) che come d’abitudine si inseguono più o meno lungo tutto lo scorrere del film nei dialoghi e nelle sospensioni visive. Già da mesi The house that Jack built era stato annunciato dalla produzione e dallo stesso von Trier come un film iperviolento, disturbante, difficile da digerire. La sua violenza però, con l’eccezione di una singola sequenza (l’amputazione di un seno) che, come a voler zittire i censori, rimarrà ai limiti del fuori campo con un’ellissi che trasporta quasi immediatamente, sull’inizio dell’azione, in un altro luogo qualche ora dopo, non è fatta tanto di immagini forti e potenzialmente “fastidiose”, quanto di interstizi e ambiguità mentali. Più in generale, quella di The house that Jack built non è tanto una violenza fisica, ma è una violenza per lo più di tipo psicologico, in cui è proprio Lars von Trier, colui che si mette a nudo e ridiscute un’intera (percezione della) vita e un’intera carriera, la prima e forse unica vittima di questa violenza. Il sangue che scorre è tutto sommato poco, di gran lunga inferiore rispetto alla media di un normale film di genere e di certo nulla rispetto alle sanguinolente masturbazioni e alle atroci forbici di Antichrist, ma la mente e il malessere di von Trier, qui più che mai, sono presi, esposti, scanditi, passati al setaccio, confutati, stuzzicati e fatti sanguinare, in un cinema/terapia d’urto che si incunea come un vero e proprio viaggio agli inferi sempre più verso il centro, all’origine del dolore. Un “incidente” dopo l’altro, un brandello di vita e di morte dopo l’altro, l’ingegnere procede nella sua “autopromozione” ad architetto (del crimine) per la sua ossessione compulsiva nel fare qualcosa di grande, di magniloquente, di realmente creativo, che diventi un emblema, un simbolo, un’icona. Un qualcosa di immediatamente riconoscibile e pienamente identificabile. Come la svastica, se vogliamo, ed è anche in questo senso che rientrano i totalitarismi e i loro piani criminali.

Del resto, il mondo “normale” mostra un’indifferenza che denota un egoismo non certo inferiore a quello di chi si autodichiara «pazzo narciso» (emblematica la sequenza del «sessantunesimo omicidio», in cui Jack chiederà apertamente alla vittima di urlare per dimostrare a lei e a se stesso che nessuno sarebbe intervenuto, oppure la sua confessione urlata in mezzo alla strada di fronte a un agente di polizia che invece di controllare la sua posizione lo bollerà come un mitomane ubriaco e lo lascerà ancora a piede libero), e Jack “il sofisticato” avrà tempo e modo di prendersi sempre più rischi per rendere il suo primo brutale e improvvisato omicidio, l’inizio della strada verso una libertà di espressione, in un certo senso quella scintilla di ispirazione che scoperchia un Vaso di Pandora latente da sempre. È proprio la sua prima vittima, nel primo “incidente”/tappa/rivoluzione nell’esistenza criminale di Jack, a suggerirgli che sguardo e furgone «sembrano proprio quelli di un serial killer», e a fornirgli la necessaria frustrazione con la sua petulante insistenza per pensare seriamente a un modo anche violento e definitivo per farla stare zitta. Quella interpretata da Uma Thurman è una donna invasiva, superficiale, talmente insopportabile da portare subito il pubblico a parteggiare per l’omicida, a sperare che metta prima possibile mano a quel cric/jack rotto che è causa del loro incontro, e che lei stessa fornisce a Jack. Quello che era stato un semplice impulso si scopre liberazione, benessere, soddisfazione, e poi perfezionamento ed egocentrismo, con cui Jack ucciderà ancora, con sempre meno improvvisazione e sempre più freddezza, con sempre meno approssimazione e piani sempre più elaborati, con foto e composizioni dei cadaveri sempre più raffinate e coefficienti di difficoltà sempre più alti, come è sempre più alto nella carriera di Lars von Trier il coefficiente di stratificazioni e complessità nella scrittura e nella messa in scena.
Nella natura dell’artista c’è la necessità di far convivere l’agnello e la tigre, l’innocente e il selvaggio, l’umano e il narciso. Ne è pienamente cosciente Lars von Trier, e ne è pienamente cosciente Jack, il cui tentativo di elevare l’omicidio ad atto creativo nient’altro è che cercare un proprio pubblico, la propria immagine, il proprio status di icona, come è un’icona il marchio autoriale del regista. Fra bombe e rovine, monumenti e violenze, narcisismi ed egocentrismi di chi uccide, The house that Jack built si inoltra nei suoi cinque “incidenti” in un disturbo ossessivo compulsivo che da una mania della pulizia fatta di eterni ritorni sul luogo del delitto a eliminare ogni possibile traccia di sangue da sotto le gambe delle sedie, dietro i quadri e sotto gli oggetti d’arredo giunge a un omicida sempre più preciso, rilassato e sofisticato, pronto a rapire vittime sempre più rischiose e meno indifese, pronto a uccisioni sempre più spettacolari fino all’omicidio multiplo con un solo proiettile “full metal jacket”. Tutto fa parte dell’atto creativo: saper mentire, sapere improvvisare, saper parlare, saper convincere, e poi comporre sfruttando il rigor mortis, creare, «scrivere la musica», come un architetto dell’omicidio, come mr. Sophisticated, come Lars von Trier. A suo modo, l’insensibile omicidio è l’unico modo che Jack ha per tornare a essere sensibile, umano, in pace con se stesso. Fra schermi tripartiti nei possibili processi per trasformare l’uva in vino e riprese accelerate di ritorni sul “set” della morte per, in sostanza, rigirare una scena, fra orrori nazifascisti e aberrazioni di un uomo la cui natura perfida è forse l’unico possibile scudo – uccidere per non essere uccisi, essere architetti per non essere più meri ingegneri, essere tigri per non essere agnelli – dagli scudi di malvagità altrui, ci si ritrova al quinto “incidente”, quello ultimo e definitivo, nel quale Jack rapisce ormai uomini e non più donne, magari addirittura con preparazione militare, per il suo sparo-capolavoro dopo il quale nient’altro avrà più senso. Dietro a una porta rimasta per tanti anni chiusa, dopo che il ripercorrere episodico ma cronologico ha dato nuovi colori alla luce oscura, ecco che il nero può sparire dalle conversazioni, e Verge può finalmente acquistare un volto e un portamento al di là della voce. Mentre da fuori, finalmente, la polizia lavora di fiamma ossidrica per penetrare nel suo covo blindato e Jack non fa nulla per tentare di fermarli, il serial killer finisce di raccontarsi allo sconosciuto, capendo finalmente che la sua casa, The house that Jack built, non può essere di legno né di mattoni, ma deve essere fatta di quella che è l’altra sua ossessione, di quella che è l’altra (e vera) architettura di Jack. “La casa che Jack costruì” è una casa fatta di trent’anni di corpi/corpo cinema, è una casa fatta di vittime innocenti e indifese, è la casa sulla quale, quando la porta della cella frigorifera cederà e dal buco farà fuoco la mano armata di un agente, finirà il proiettile. O forse, più probabilmente, il proiettile che si vede conficcarsi in un corpo già morto è stato invece la Nέμεσις che ha definitivamente sconfitto la ὕβϱις di Jack, è stato il colpo della fine di tutto, è stato il colpo dell’epilogo dell’assassino.
È così che si spalancano le porte dell’inferno, ed è così che il girone infernale terreno diventa un girone infernale vero e proprio, con quelle bolle d’aria che trasportano come dei Caronte Jack/Lars e il suo Virgilio nelle viscere degli inferi trasformandoli in sostanza in quelle icone a cui il serial killer aveva sempre anelato. «You want(ed) me to show to the next whiskey bar» dirà ancora una volta Verge, declinando però questa volta Alabama Song in un passato remoto che basta da solo a dire tutto, mentre accompagna Jack giù per scalinate di ammassi di corpi che tornano ancora alla visionarietà allucinata di Antichrist, per poi scortarlo su vere e proprie Barche di Dante di Delacroix, fatte di corpi e di contorcimenti umani, a dare un’occhiata per l’ultima volta al rimpianto per trovarlo poco interessante, e per inoltrarsi poi, fino alla fine, nel presente e nel futuro di sangue, di dolore, di sofferenza eterna. Di solitudine, di buio, di dannazione. Di accettazione, proprio come Kirsten Dunst, in quanto depressa, era l’unica persona in grado di accettare l’apocalisse annunciata di Melancholia nell’isteria dei “sani” del geniale ribaltamento fra prima e seconda parte. A Jack rimane giusto il tempo per una lacrima, tardiva eppure straordinariamente umana, che riga in maniera quasi impercettibile e inaspettata il volto di chi ha ucciso, ha manipolato, ha torturato, e solo così ha scoperto l’uomo dentro la bestia. Poi ci sarà solo il magma ribollente, l’ultimo passo sulla parete di chi non ce la può fare, e gli applausi (sempre troppo pochi, in realtà) fino a scorticarsi le mani per questo film definitivo, straordinario, atrocemente sublime. Il vero e unico “pazzo” è solo chi ancora, anche di fronte a questo stordente e scioccante capolavoro summa e superamento di (tanti) altri sottovalutati capolavori e che dei (tanti) altri sottovalutati capolavori fornisce una nuova chiave di lettura etica unica e ancora più lampante, si ostina a chiudere gli occhi su Lars von Trier, a fraintenderlo fino a negare la realtà, a fermarsi al significante senza decodificare il significato. Ad appiccicare a uno dei maggiori autori degli ultimi trent’anni etichette (non) critiche sbagliate e superficiali, accontentandosi di ragionare come un ingegnere quando potrebbe tranquillamente, senza fatica, essere un architetto. Perché The house that Jack built è un film complesso, stratificato, metalinguistico, ipnotico, metaculturale, quasi oracolare nella sua densità, e al contempo dolente, impaurito, nervoso. È un film che contiene un intero cinema, un intero autore, un intero immaginario, un intero uomo fatto di doppiezze e ambiguità, fatto di amarezze e di inquietudini, fatto di nichilismo e di tendenze alla dissoluzione. E soprattutto fatto di raffinatezza, di sofisticatezza, di necessità ancestrale dell’atto creativo, e fatto di una ben precisa filosofia, secondo la quale le regole morali da sempre tarpano la libertà artistica, e piuttosto che accettare la censura, il compromesso, il passo indietro dalla pura autorialità, è decisamente meglio scegliere liberamente la dannazione. L’arte è un’arma potentissima, che può manipolare, far marcire, distruggere, ma anche salvare l’umanità e il mondo. O per lo meno può salvare un uomo. Il che è già moltissimo. Hit the road, Jack! Hit the road, Lars! E grazie per questa definitiva e ineludibile gemma.

Marco Romagna