11 Agosto 2024 -

SLEEP #2 (2024)
di Radu Jude

«Trovo il montaggio troppo stancante […] lascio che la camera funzioni fino a che la pellicola finisce, così posso guardare le persone per come sono veramente»
Andy Warhol

Verrebbe quasi da dire che parte dalla carrellata di tombe che interrompeva per qualche minuto il flusso narrativo di Do not expect too much from the end of the world, l’idea alla base di questo straordinario Sleep #2. Eppure è abbastanza evidente come, sin dal titolo con cui porsi come una seconda versione dello Sleep warholiano, giocoforza “eterna” nell’eternità del riposo cimiteriale ma anche nello sguardo perpetuo di una webcam, il film nasca da molto prima, dallo studio e dalle passioni di una vita, da concetti e teorie che dopo sessant’anni non hanno ancora finito di rivoluzionare forme e movimenti artistici, da quell’evidente dialogo a distanza che il cinema di Radu Jude, specialmente nei suoi lavori più sardonici e anticapitalisti ma a ben vedere anche in quelli formalmente più spiazzanti, ha sempre mantenuto ben saldo con la Pop-art e con il suo principale interprete d’oltreoceano Andy Warhol. Quello più di tutti inserito nel Capitale e con ogni probabilità il principale cantore della società dei consumi, eppure al contempo autore di un programmatico lavoro di decontestualizzazione capace di svuotare di significato le icone per smascherare quell’angoscia esistenziale collettiva che l’ostentata superficialità della società consumistica, con il suo volto sempre sorridente, tanto si affanna a dissimulare. Un campo nel quale Sleep #2, presentato in coda al ‘Blob pubblicitario’ Eight postcards from utopia nel medesimo slot fuori concorso di Locarno77, incontra l’altro lavoro fino a intrecciare un dittico per molti versi imprescindibile e complementare, come una sorta di lato A e lato B con cui, in linguaggi cinematografici quasi opposti, ragionare da due punti totalmente differenti su quella che è la contemporaneità della società (sia questa televisiva, social-internautica o in generale di consumatori), e su come stia proprio al quel cinema che è fra i principali megafoni con cui divulgarla, e in generale all’arte compresa quella Pop, l’arduo compito di ritornare a svelare la realtà che si cela fra le righe della finzione. Da un lato con un film-mosaico sulla fiducia e sull’ipocrisia, sul progressivo stringersi del cappio del Capitale attorno alle gole del popolo attraverso la rappresentazione – pubblicitaria, appunto, e quindi di propaganda quasi inevitabilmente mendace – di se stesso, e dall’altro con un film a cui basta una singola inquadratura, quella della webcam del cimitero cattolico bizantino di St. John the Baptist a Bethel Park fissa 365/24 sulla tomba di Andy Warhol (qui il link), più e meno zoomata e pixelata lungo lo scorrere delle stagioni, perché le istanze comuni diventino vere e proprie corrispondenze di sensi con cui squarciare questa cortina di finzione semplicemente mostrandola, moltiplicandola, alterandola, riportandola al suo stato di pura immagine riproducibile all’infinito, che non ha più una personalità definita né alcun messaggio da veicolare ma solo forma e tempo, e che quindi può liberamente ricombinarsi con altre immagini in un nuovo significato magari contrario a quello originario.

Un vero e proprio studio sperimentale che è il più sentito e ragionato fra gli omaggi, più ancora che un “semplice” film-saggio. Un (capo)lavoro che va alla ricerca del senso più profondo della Pop-art del grande pubblicitario Warhol ripercorrendone i dettami (non solo) cinematografici, e ritrovandone lo spirito e la piena contemporaneità delle teorie. Dal singolo e unico punto di vista fisso attraverso cui guardare lo scorrere del tempo nelle differenze di luminosità e nella manipolazione (lo stesso del già citato Sleep, che filmava in camera fissa a 24 fotogrammi al secondo oltre sei ore di sonno del poeta John Giorno per poi proiettarle rallentate a 16, o dell’ancora più estremo Empire che stava per otto ore immobile sull’Empire State Building, ma anche dei vari Blow Job e Eat, o dei più di 500 rulli Screen test a cui l’artista forse più influente del Novecento era solito sottoporre quasi chiunque passasse per la sua Factory) ai quindici minuti di celebrità vissuti senza nemmeno rendersene conto dallo straordinario campionario umano (questo, sì, puramente “di Radu Jude”, anche se nelle dinamiche ”turistiche” che vengono filmate torna in mente anche il Sergej Loznitsa di Austerlitz) che, inconsapevole o noncurante della webcam al punto di tirarsi fuori all’improvviso il culo e quasi sempre presente più per fare un macabro selfie col morto famoso che per reale pellegrinaggio (eppure proprio per questo così in-consapevolmente vicino ai dettami di vita e di arte warholiani), va a trovare l’artista al camposanto. Ma anche gli immancabili barattoli di zuppa Campbell che qualcuno porta come omaggio sulla lapide e qualcun altro prima o poi fa sparire probabilmente per metterli in tavola alle ripetute dilatazioni e contrazioni del tempo e dello spazio sono un fondamentale elemento warholiano, così come il difetto dell’immagine che diventa nuovo e casuale slancio artistico (le astrazioni del rumore digitale in bassissima definizione, che ritornano nelle schermate registrate direttamente dallo schermo del computer di Jude proprio come i contorni leggermente scomposti rispetto al colore nelle Marilyn Dipytch warholiane), e soprattutto l’icona (o meglio, il sepolcro-icona dell’artista-icona, con il nome d’arte scritto separatamente dal Warhola della tomba di famiglia) che diventa un vero e proprio simulacro al contempo importantissimo per chi lo (br)ama ma in definitiva del tutto inutile, contraddittorio, insensato. La tomba più fotografata al mondo, e proprio per questo ridotta a mero elemento Pop esattamente come le rappresentazioni serigrafiche seriali svuotate di significato dei volti dei personaggi più famosi. Come un feticcio inanimato su cui sorridere e suonare la chitarra ben più che piangere, da omaggiare probabilmente senza aver capito nulla di Warhol e sicuramente senza rendersi conto di stare rendendo con il proprio fraintendimento anche la piena ragione e la piena contemporaneità alle sue teorie sull’icona e sulla celebrità, aggiornandole ai tempi di Internet e degli influencer social. Non un luogo di impossibile vita dopo la morte, né un Pigmalione in cui ritrovare chi non c’è più, ma un luogo intorno al quale aprire tavoli e tovaglie per lanciarsi in un vero e proprio picnic con il morto, un luogo in cui far scattare l’otturatore di qualsiasi macchina fotografica passi in zona o in cui tirare fuori la matita e mettersi a disegnare. Un luogo di cerbiatti e di turisti, di siepi che crescono e vengono nuovamente tagliate, di giardinieri al lavoro e di ritorni della quiete dopo i tuoni e i fulmini improvvisi della notte. Un luogo di corone botaniche messe stoltamente a coprire la le lapidi, fatto di eternità e di continui piccoli cambiamenti, fatto di un’umanità variegata e di rumorose scavatrici che smuovono la terra disturbando l’eterno riposo di chi rimane. O forse semplicemente un bagno all’aria aperta per gli animali diurni e notturni, che non aspettano altro che l’uscita dei visitatori per poter scorrazzare liberi su quello che per loro è e rimarrà semplicemente un prato su cui rincorrersi mangiando tutti i fiori.

Marco Romagna

“Sleep #2” (2024)
61 min | N/A | Romania
Regista Radu Jude
Sceneggiatori Radu Jude
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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