RAISING CAIN – DOPPIA PERSONALITÀ (1992), di Brian De Palma

Presentato nella retrospettiva del 35° Torino Film Festival, Raising Cain costituisce un ritorno delle sperimentazioni di Brian De Palma nel mondo del thriller, dopo le varie incursioni in altri mondi cinematografici, come il gangster-movie di The Untouchables e la commedia satirica di The Bonfire of Vanities. Prima di trattare il film, è necessario però fare un appunto importante sulla sua edizione: la struttura del progetto di De Palma prevedeva che l’argomento centrale, ovvero la personalità multipla del protagonista, venisse introdotto solo a circa un terzo del film, “ingannando” lo spettatore con una prima sezione incentrata sul punto di vista della moglie del personaggio, un po’ come aveva già fatto qualche anno prima in Dressed to Kill. Per paura che il film risultasse poco accattivante, egli decise all’ultimo minuto di riorganizzarlo di modo tale che fosse più cronologicamente lineare e che, in sostanza, mettesse più carne al fuoco sin dalle prime battute. Oltre a questa versione distribuita in sala nel 1992 e presentata al festival, venne però realizzato nel 2012 da Peet Gelderblom, un regista olandese grande fan di de Palma, un montaggio fedele al progetto originale, dal quale l’autore rimase talmente impressionato da farlo includere nella nuova edizione Blu-Ray come “Director’s Cut”. Le due versioni non variano per minutaggio, ma semplicemente per ordine delle sequenze (in cui vengono presentati eventi che avvengono sostanzialmente in contemporanea), ma il montaggio più recente e alternativo riesce, con il ribaltamento di prospettiva legato all’idea originale, a risultare in realtà ancora più accattivante e interessante di quello ufficiale, per quanto il discorso di base rimanga inscalfito.

Da un lato abbiamo il punto di vista di Jenny, una donna sposata il cui matrimonio si incrina sempre di più a causa delle attenzioni quasi morbose che il marito Carter, uno psicologo dell’infanzia, rivolge alla loro figlia Amy. Un giorno incontra la vecchia fiamma Jack, con il quale riesplode subito la scintilla di una passione che era nata e subito stata repressa quando Jenny aveva in cura sua moglie, e di conseguenza comincia fra i due una relazione adulterina. Dall’altro lato abbiamo invece il vero fulcro del film, Carter, che scopriamo essere in realtà solo una delle tante personalità che abitano un unico corpo, fra le quali vi sono anche Cain, una testa calda che si sporca le mani con gli atti più crudeli, Josh, un bambino spaventato di dieci anni, e Margo, una spietata e muta personalità femminile – in una scissione schizofrenica che probabilmente è servita come grande ispirazione per M. Night Shyamalan nel suo recente Split. Carter (o chi per lui) sta inoltre cercando di portare a termine un progetto di ricerca iniziato da suo padre, che richiede il sequestro di un gruppo di bambini per chiuderli in un ambiente sicuro e monitorare da vicino i primi anni di sviluppo della loro personalità. Lentamente si approfondisce l’oscurità dietro la vicenda portando alla rivoluzione che è stato proprio Baumse Nix, il padre di Carter, a sottoporlo di proposito a una serie di traumi infantili per analizzarne la reazioni e soprattutto osservare la conseguente nascita delle sue altre personalità. È evidente innanzitutto come Raising Cain sia un film che parte dall’idea della frammentazione della personalità per tradurla in una frammentazione di tutta l’esperienza cinematografica: esso è strutturato come un vero e proprio poliedro dei punti di vista (dei vari personaggi) e dei piani di realtà. Obiettivi, schermi e riprese giocano ancora una volta un ruolo fondamentale in quest’opera che fa dello sguardo stesso il proprio oggetto di interesse, proprio come aveva fatto Powell in Peeping Tom, che viene qui esplicitamente citato e ripreso da De Palma. È un film sulla minaccia dello sguardo, sull’occhio che cerca di invadere la mente, sul cinema che invade la realtà, sulla follia a cui può portare l’ossessione per l’osservazione, qui declinata in tinte tematiche più vicine ai drammi della fantascienza classica (in sostanza l’archetipo del Frankenstein pericolosamente assetato di conoscenza) piuttosto che il voyeurismo a sfondo sessuale che, per quanto presente anche qui, è ben più preponderante in altre opere del regista come Hi, Mom! Omicidio a luci rosse.

Hitchcock è ancora una volta il punto di riferimento principale, particolarmente evidente nelle sequenze incentrate sulla moglie, che ruotano attorno a piccoli oggetti, minuscoli dettagli che vanno ad assumere un’importanza enorme – la chiave dell’albergo di Jack, oppure i due pacchetti scambiati. Come in Dressed to Kill, vengono fatti rimandi precisi a Psycho, qui riecheggiato non solo nel personaggio del protagonista/antagonista assassino lacerato da un conflitto interiore e d’identità, ma anche dalle tecniche di regia: basti pensare all’inquadratura della macchina che affonda nell’acqua. Ma l’aspetto più interessante che De Palma riprende dal suo “maestro” è l’abilità nel riuscire a giocare con le aspettative dello spettatore, prima costruendole meticolosamente e poi ribaltandole del tutto: l’autore conosce alla perfezione tutte le convenzioni linguistiche che si instaurano tra il film e chi lo guarda, ed è quindi attento a presentare il dottor Bamse in situazioni dall’atmosfera ambigua, sempre e solamente alla presenza di Carter oltre che interpretato dal suo stesso attore e ufficialmente dichiarato morto, lasciando intendere che si scoprirà essere nient’altro che un’altra delle sue personalità, per poi inserire un “contro-twist” e rivelare che in realtà egli ha finto il suicidio ed è ancora in vita. Anche l’inquadratura dell’automobile che sprofonda “distrugge” quella originale di Psycho, in quanto si vede la donna chiusa dentro l’abitacolo riprendere conoscenza e chiedere disperatamente aiuto mentre cerca di uscirne, mostrando una delle espressioni più disturbanti di tutto il cinema di De Palma.

Tutto Raising Cain rappresenta quella che forse è l’opera più inquietante e grottesca del regista, anche a causa di un dark humour agghiacciante, come nella breve analessi in cui Jenny e Jack si baciano davanti al letto d’ospedale della di lui moglie, che lentamente si gira verso di loro morendo subito dopo averli visti, lasciando i protagonisti e lo spettatore con un’immagine che li tormenterà a lungo e nel profondo, ennesima prova della pericolosità anche autodistruttiva dello sguardo. È anche uno dei suoi film più tesi, fatto di soluzioni registiche meno appariscenti, piani sequenza virtuosi ma più lenti, con un senso dell’alienazione che sembra dare un piccolo tocco di Lynch sparso qua e là, in particolare nel simile interesse per carrelli che si muovono per i bui corridoi di case che altro non sono che i più oscuri meandri della mente umana, mentre il labile confine tra sogni ed eventi reali si assottiglia sempre di più fino a svanire. Anche se il suo tono generale non riuscì ad aggiudicarsi né i favori del pubblico né quelli della critica, a causa della resa caricaturale delle personalità di Carter e del tipo di ironia adoperata nella logica dei dialoghi e dei momenti chiave, Raising Cain è un’altra delle clamorose opere vergognosamente sottovalutate di uno dei maggiori autori viventi, un film che ai più è risultato e risulterà sempre indigesto, ma che può rivelare per gli spettatori più attenti e affezionati un’intelligenza e una complessità di sguardo uniche e invidiabili nel panorama (non solo) cinematografico mondiale.

Tommaso Martelli