18 Maggio 2024 -

MEGALOPOLIS (2024)
di Francis Ford Coppola

Quasi cento anni dopo l’uscita sugli schermi di Metropolis di Fritz Lang, che causò in pratica la bancarotta della casa di produzione berlinese UFA, ecco che un altro progetto mastodontico e visionario prende le forme prima sugli schermi del Festival di Cannes e poi, auspicabilmente, su quelli dell’intero pianeta. Il passaggio di consegne, in seguito agli eventi della prima guerra mondiale, dagli imperi mitteleuropei a quello della (relativamente) giovane nazione ricettacolo d’immigrazione, gli Stati Uniti d’America, trova ora un suo canto funebre che al contempo lancia messaggi e speranze per il futuro, come già faceva Lang nel 1927 prefigurando la tragedia nazista già in nuce nella società tedesca. Francis Ford Coppola porta a compimento il suo progetto dalla quarantennale gestazione, e lo fa proprio oggi che il suo assunto appare perfettamente in linea con gli eventi che stanno sconvolgendo e cambiando le sorti dell’equilibrio mondiale. La sua Megalopolis si pone come pietra di paragone, punto di partenza verso un nuovo futuro e punto d’arrivo per il Novecento, il secolo americano tracimato con fatica anche in questi primi decenni del XXI secolo. Sfiora anche lui la bancarotta, anche se personale grazie a fondi propri, pur di consegnare al pubblico quello che sente (dover) essere il suo regalo d’addio, l’ennesimo contributo culturale di un titanico artista già due vincitore a Cannes, con La conversazione e Apocalypse Now, al dibattito in corso in ogni sede, sia civile che istituzionale. Come riorganizzare la vita dei conglomerati urbani per traghettarla nel terzo millennio? La caduta dell’impero americano è evitabile, e se evitabile è anche auspicabile? Non c’è argomento più contemporaneo di questo, specie per un cittadino americano, e non c’è un modo più fuori dal tempo e oltre l’umano di trattarlo che quello scelto da Coppola per il suo film terminale. Un progetto sin dal titolo megalomane e sulla megalomania autoriale, consapevolmente suicida, per molti versi sbalestrato, come detto dai distributori americani “invendibile”, ma con un respiro da grande, grandissimo cinema che non esiste più. Un film semplicemente “da fare”, un po’ come I cancelli del cielo, o un po’ come il Don Chisciotte di Gilliam, per se stesso e per il cinema, per l’epica della narrazione per immagini e per la Storia dell’arte, senza più bisogno di pensare troppo alle conseguenze. Coppola, al contrario di (giusto per rimanere in questo stesso concorso cannense) Paul Schrader e della riflessione sulla finitezza umana ripiegata sul privato in Oh, Canada, rifiuta per l’ennesima volta l’intimismo, e veste i panni di demiurgo per si concentrarsi sulle dinamiche di potere, sull’infinitesima percentuale di persone che lo gestiscono davvero e che, proprio come nella saga de Il padrino, muovono i fili degli eventi di massa anche in seguito alle loro piccole beghe personali. Alla tragedia di stampo shakespeariano della famiglia mafiosa dei Corleone si sostituisce il richiamo – anche architettonico – a quella classica e all’antica Roma, con New York trasformata in New Rome e nomi come Catilina, Crasso e Cicerone, per personaggi insieme antichi e moderni, sindaci e patrizi, populisti e tribuni della plebe.

A sottolineare che si tratti, come da sottotitolo, di una fiaba, la voce narrante di Lawrence Fishburne, anche in scena come l’infido Fundi Romaine, che in tono declamatorio ci mette a parte delle vicende dei governanti di questa realtà alternativa MOLTO simile alla nostra. Una realtà in cui l’architetto Cesar Catilina (Adam Driver) ha fatto una scoperta sensazionale che, unita alle sue avveniristiche idee per lo sviluppo urbano, può finalmente condurre New Rome e il mondo verso una rivoluzione che riduca lo sfruttamento delle risorse e costi meno denaro: il megalodon, un materiale capace di manipolare il tempo, di introdurre realmente una quinta dimensione, di riprogettare letteralmente il mondo senza più la stringente logica capitalista del profitto a tutti i costi. Questa idea viene naturalmente ostracizzata e ostacolata dai maggiorenti della città, il sindaco Frank Cicero (Giancarlo Esposito) e il banchiere Hamilton Crassus III (John Voigt, che prende il posto del deceduto e inizialmente designato James Caan), e a perfetto ribaltamento della sua celeberrima “congiura” viene ordito una sorta di complotto ai danni di Catilina, che prova ancora dolore per la morte della sua compagna ma, all’apparenza, non è stato il responsabile della sua morte. Ma questa donna esiste davvero? O forse quello a cui crede solo la mente è ormai perfettamente sovrapponibile con la realtà stessa? Questa è la vicenda per grandi linee, con la narrazione che si frammenta e disperde in mille rivoli, impossibili da seguire tutti in sede di analisi se non ci si vuole limitare soltanto a un puntiglioso resoconto, resoconto che è comunque meglio fruire in sala con il piacere della scoperta dell’invenzione continua, della pluralità di generi e stili, degli albori del cinema a stretto contatto con il futuro anteriore dello stesso. Come già nel suo Dracula d’inizio anni Novanta che, insieme a Jurassic Park di Spielberg, segnava passo e confine tra era della pellicola e dell’analogico e nuova rivoluzione digitale, Coppola usa un profluvio di armamentari visivi e narrativi, oscillando tra i tanti momenti splendidi e, è da riconoscerlo, gli altrettanti sciatti e scollati dal resto. È ben visibile, persino ora che Magalopolis è chiuso e finito, il faticoso comporsi del film pezzo dopo pezzo, le riscritture lungo quarant’anni di vita e di carriera, le scene aggiornate e quelle rimaneggiate, i piani di ascolto degli attori montati a riempire vuoti di un ordito pronto ad essere disfatto e rimodellato per l’ennesima volta. Ma è ben chiara, tra queste maglie larghe e un filo slabbrate, la visione e l’intenzione generale, l’ambiziosità del progetto, l’improbo tentativo di mostrare mondi mentali senza averne i mezzi a sufficienza. Perché il paradosso è proprio questo: nonostante sia costato più di cento milioni di dollari, è sostanzialmente un film a basso budget per quelle che dovevano essere le ambizioni, proprio come Metropolis, di realizzare un’opera d’arte a trecentosessanta gradi, totale, contenitrice di tutte le arti al massimo livello.

Col budget racimolato Coppola ci fa intuire alcune cose, passa gran parte del minutaggio in interni e in studio per poter poi giocarsi i jolly rimasti in scene magnifiche come quella della pioggia di meteoriti, con ombre schiacciate sulla silhouette dei grattacieli, già simulacro di un umano morente. E arriva a sfondare la quarta parete definitivamente, con un giornalista che entra in QUESTO mondo, quello del pubblico in sala, a far domande all’altro, quello sullo schermo: un’esperienza irripetibile nei cinema e confinata probabilmente solo alla proiezione cannense o a qualcun’altra stretta e selezionata, che contiene la quintessenza stessa di Francis Ford Coppola. Da buon vecchio incantatore di serpenti, da cormaniano puro anche nei progetti più faraonici, Coppola s’inventa ancora qualcosa, che ci ricollega con il passato (il teatro, il cinema muto con i lettori di didascalie) e apre al futuro, ridonando carne e sangue a immagini digitali(zzate) fredde. Il grande rammarico è quello di aver aspettato tutto questo tempo per ottenere “soltanto” uno scampolo delle idee di cui era composto Megalopolis; il privilegio è quello di aver comunque avuto questa sorta di montaggio di presentazione, di aver messo un punto fermo, di aver messo le mani su tutto quel che c’era da vedere prima dell’irreparabile, che al cinema e nel sistema capitalista è sia la morte che la mancanza di capitali. Nel finale, poi, Coppola alza ulteriormente la sfida inseguendo la retorica più alta, identificata nel monologo chapliniano da Il grande dittatore, e sfida ancora una volta il tempo, questa volta nel senso dell’andare contro ogni moda e cinismo del contemporaneo e ritornare alla magnifica ingenuità propria di bambini, anziani e società giovani e rampanti, al contrario di quella occidentale depressa, panciuta e morente. Un invito a mettere da parte le divisioni, a cercare il bene, coincidente con lo sguardo di un infante; perché senza un popolo che guarda avanti e “crede” che la società possa migliorare, nessun Sogno, americano o meno, potrà mai più attecchire. Alti concetti appunto (magari ingenuamente semplicistici per i detrattori) e ambizioni come non se ne vedevano da tempo in una sala cinematografica. C’è da ringraziare il patriarca Francis, che arriva in conferenza stampa tenendo cinta a sé l’ennesima piccola nipotina del suo clan, per aver provato a svegliarci tutti, società dello spettacolo e tout-court; anche se, in realtà, probabilmente bisogna ripiegare in maniera personalistica anche Megalopolis. Coppola ha lasciato tutto al suo clan familiare tranne una cosa, un’assicurazione sulla loro esistenza nel futuro, la protezione da eventi apocalittici che potrebbero compiersi alla sua avvenuta dipartita: e allora invita il mondo a provvedere nell’unico modo che conosce, offrendo un’opera cinematografica che sintetizzi anni di ricerche, consultazioni e incubi… È per questo che ci rifiutiamo di dare una valutazione nella maniera solita a tutto questo, a un cinema troppo evidentemente grande per essere ingabbiato fra le maglie del gusto, del bello e del brutto, del riuscito e del  non riuscito. Un po’ come nel caso di The Other Side of the Wind di Orson Welles non c’è nulla da giudicare, ma solo da vedere e rivedere, sequenza per sequenza, momento per momento, follia dopo follia, visione dopo visione. E dolcemente perdersi, nella grandeur della narrazione per immagini e nella malinconia di un ultimo saluto dal finestrino, consapevoli di dovere prima o poi andare via, ma senza più possibili rimpianti, senza avere lasciato più nulla di intentato.

Donato D’Elia

“Megalopolis” (2024)
Drama, Sci-Fi | United States
Regista Francis Ford Coppola
Sceneggiatori Francis Ford Coppola
Attori principali Giancarlo Esposito, Aubrey Plaza, Nathalie Emmanuel
IMDb Rating N/A

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