15 Maggio 2024 -

LE DEUXIÈME ACTE (2024)
di Quentin Dupieux

«Faceva parte del film?», si chiede qualcuno fra le comparse quando sembra essere accaduto l’irreparabile. Ma forse la realtà nemmeno può più esistere, in un mondo (del cinema, ma a ben vedere anche in generale, in una società sempre più tecnologica e sempre più basata su immagini nelle quali è sempre più difficile distinguere il vero dal falso) dove nemmeno dopo l’unico «Coupez» finisce la finzione. Ne inizia solo un altro strato, l’ennesimo, in cui (gli strepitosi) Vincent Lindon, Léa Seydoux, Louis Garrel e Raphaël Quenard (ma pure il cameriere Stéphane di Manuel Guillot è tutto fuorchè un «personaggio secondario») non tornano (ancora) a essere semplicemente loro stessi, ma continuano a vestire i panni dei meta-attori Guillaume, Florence, David e Willy, in una “vita reale” magari esattamente agli antipodi per carattere e orientamento sessuale alla loro versione sul (disastroso) meta-set, come un’ulteriore stratificazione del continuo gioco di specchi fra la messinscena e una serie di realtà apparenti che a loro volta nient’altro sono che pura finzione. Chi è l’attore (quello famoso, o l’attore fittizio che l’attore famoso interpreta)? Chi è il personaggio? Dove finisce uno e inizia l’altro? E che cosa può fare – o non fare – il cinema fra il reale e la finzione? Una scatola di meta-livelli dalla comicità grottesca con cui Quentin Dupieux, negli ultimi tempi sempre più prolifico e forse mai così apertamente teorico, apre fuori concorso la 77ma edizione del Festival di Cannes continuando la sua riflessione nonsense su realtà, rappresentazione e ruolo dell’attore. È in questo senso che si configura (letteralmente) come un vero e proprio “secondo atto”, questo Le deuxième acte che, sullo schermo, è invece semplicemente il nome del bar-ristorante in cui è ambientata buona parte della vicenda. Un film legato a doppio filo al palcoscenico-coito-interrotto di Yannick (con in mezzo il personaggio in più interpreti, eppure lo stesso impossibile, di Daaaaaalí!) quasi come una naturale prosecuzione/stratificazione del medesimo discorso – lo diciamo subito, senza nulla di trascendentale eppure nettamente migliorata, con una pletora di intuizioni comiche, di messaggi più che condivisibili, di stupefacenti prove attoriali e soprattutto di nuovi e ragionati ribaltamenti proprio dove il precedente finiva per incartapecorirsi su una sola idea, seppure in partenza ottima – dal teatro al set cinematografico. Del resto è già dai tempi di Réalité, ma forse in maniera meno esplicita già dalla gomma assassina di Rubber e dal totale nonsense di Wrong e Wrong Cops, che Quentin Dupieux è ossessionato dalle possibili forme della realtà e della non-realtà, dal credibile e dal non credibile, da non-situazioni e non-luoghi destinati a diventare teatro dell’assurdo fra la pelle di daino di Le daim e le sigarette di Fumer fait tousser, fra l’eterna giovinezza del meno riuscito Incroyable mais vrai e la smaccatamente “incredibile” e mostruosa mosca gigante di Mandibules. Alternando magari prove più e meno riuscite, più e meno divertenti, più e meno stratificate o magari a volte direttamente sterili (non certo questa, che forse ama troppo il cazzeggio per portare a termine proprio tutte le ambizioni che mette in campo, ma che anche per sostanziale mancanza di rivali in anni e anni di aperture di troppo basso profilo si rivela di gran lunga il migliore calcio di inizio sulla Croisette da parecchie edizioni a questa parte), eppure sempre personalissime per la fotografia slavata, per le durate ridotte, per la sistematica rottura degli schemi e per un intelligente tipo di comicità costantemente sospesa fra l’ironia sorniona e la totale idiozia, dove l’alto e il basso si compenetrano senza paura di provocare («Questo non puoi dirlo, ci stanno filmando», dirà Louis Garrel quando dal suo amico emergerà una qualche venatura transfobica o un termine «che non si può più dire» sui disabili, così come non mancano riferimenti al metoo e alle carriere attoriali incenerite al momento di un tentato «bacio di prova», o l’ostentata omofobia di un personaggio che ovviamente si scoprirà omosessuale esattamente come il più smaccatamente macho), e dove non esiste quasi mai un solo strato di sceneggiatura e racconto.

Ci sono i personaggi di una brutta commedia romantica: primo livello. Ci sono, fra la provocazione di una battuta volutamente offensiva e una disillusione nei confronti del cinema pronta a ritornare entusiasmo e narcisismo quando sembra che sia possibile essere ingaggiati da Paul Thomas Anderson, i personaggi/attori, perfettamente consapevoli di stare interpretando un disastroso meta(meta)film «senza uno scopo», che rompono la quarta parete e interrompono a più riprese i dialoghi per litigare o confrontarsi (o detestarsi) fra colleghi, o per ritrovarsi senza successo a “dirigere” il disastroso comprimario esordiente tradito dall’emozione, fino a quando non sarà esplicitato come tutto fosse parte di un meta-film (che Dupieux immagina non certo per caso come il primo scritto e diretto da intelligenza artificiale in base ad algoritmi e percentuali, ma di questo parleremo dopo) proprio sui meta-attori che non riescono e in realtà non vogliono mettere in scena la brutta commedia romantica: secondo livello. Ci sono sempre i personaggi/attori che però indossano i baffi finti per rimanere i personaggi/attori, seppure apparentemente fuori dal set del film che racconta il cinema fingendo a sua volta di mettere in scena la brutta commedia romantica: terzo livello, in cui il togliere una maschera impone necessariamente l’indossarne un’altra. E poi ci sono, a latere ma in realtà nemmeno troppo di questo sostanziale Hellzapoppin’ di apparenti interruzioni, gli attori veri, non certo a caso pescati questa volta nella crema del cinema (non solo) francese, che nel fingersi attori falsi rendono possibile Le deuxième acte solo grazie al loro talento cristallino, regalando alla macchina da presa di Dupieux cinque performance da antologia: veri e propri saggi di recitazione, in cui anche ciò che sembra più casuale e “sbagliato” è in realtà tecnica purissima, preparazione, estro, creazione condivisa, persona in cui far vivere il personaggio in tutte le sue possibili ramificazioni e magari al contempo nel loro contrario. Il senso del film. Capaci di cambiare più volte e all’improvviso intonazione e umore all’interno di singole carrellate in pianosequenza, capaci di sembrare posseduti da Humphrey Bogart così come di fingere di recitare male, capaci di contraddirsi continuamente e così di stratificare i loro personaggi, e di conseguenza le riflessioni dell’autore e deejay francese su ciò che è e ciò che sembra. Forse non proprio un quarto livello, ma ci si avvicina. Perché sì, forse la realtà non può più esistere senza finzione, ma nemmeno la finzione potrebbe mai esistere senza la realtà di chi la rende possibile pensandola, mettendola in scena, incarnandola, vivendola e facendola vivere su uno schermo. È per questo che, nel geniale trailer (e solo nel geniale trailer), gli attori sono semplicemente loro stessi, Lindon-Garrel-Seydoux-Quenard, e raccontano alla macchina da presa il loro personaggio. Ed è per questo che, come anticipato, il sempre anticonformista Quentin Dupieux sfrutta i paradossi di Le deuxième acte per scagliare una piccola polemica contro lo spauracchio delle intelligenze artificiali nel cinema, principale causa dello sciopero dello scorso anno degli attori e degli sceneggiatori, e in generale contro le derive di una targetizzazione estrema (ancor più interessante che si permetta di farlo in una co-produzione Netflix, ri-ammessa a Cannes fuori competizione e solo a ferreo patto che consentisse l’uscita del film in sala) che porta l’audiovisivo contemporaneo a essere in buona parte tutto uguale e innocuo, in definitiva inutile, privo di pensiero umano e di stratificazioni di senso. Proprio come se fosse realizzato da una AI che appare come un anaffettivo volto sintetizzato al computer, del tutto disinteressato alle opinioni personali, alle emozioni e all’esperienza degli umani protagonisti, tanto rapido nel decurtare dallo stipendio degli attori ogni intervento di postproduzione per “rimediare” alle improvvisazioni rispetto allo script o a qualche chilo di troppo da rendere «una corporatura standard» quanto ipocrita nel congratularsi raggiante per l’altissima percentuale di linee guida della produzione raggiunta dalle riprese della giornata. Ed è per questo che la scelta di aggiungere «il mio cervello» agli espliciti ringraziamenti nei titoli di coda non è in alcun modo un atto pretenzioso da parte del regista transalpino, né una vuota provocazione, ma in qualche modo un atto simbolico e se vogliamo politico, una definitiva presa di posizione, il ritorno al centro dell’intelligenza e della creatività umana come necessità assoluta e ineludibile del cinema, come senso stesso dell’arte. Bastano un paio di pianisequenza speculari, lungo lo stesso binario del carrello che diventerà in qualche modo titolo di coda, per introdurre sin dall’inizio i concetti fondamentali, e basta fingere di seguire sequenze algoritmiche nel ricomporre costantemente le coppie e le caratteristiche dei personaggi perché il resto lo faccia l’ironia. Senza bisogno e forse nemmeno velleità di arrivare chissà dove o di dire chissà cosa. Semplicemente, ogni tanto è necessario ribadire quello che dovrebbe essere ovvio e che invece non lo è più. Fino al parossismo e (ben) oltre.

Marco Romagna

“Le deuxième acte” (2024)
76 min | Comedy | France
Regista Quentin Dupieux
Sceneggiatori Quentin Dupieux
Attori principali Léa Seydoux, Louis Garrel, Vincent Lindon
IMDb Rating N/A

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