25 Luglio 2024 -

LA STORIA DELLA PRINCIPESSA SPLENDENTE (2013)
di Isao Takahata

La favola di Kaguya, la principessa splendente, viene raccontata ai bambini in Giappone da secoli, da generazioni, col titolo di ‘Taketori monogatari’, il ‘racconto di un tagliatore di bambù’. È più antica della più remota letteratura giapponese (le prime edizioni risalgono al X secolo), ed è una leggenda mitica, senza autore, che tutti conoscono – più o meno come, in Europa, tutti conoscono le favole di Esopo e dei fratelli Grimm, anche chi non le ha mai davvero lette in un edizione che rechi il loro nome, perché si tramandano ancora oralmente nel contesto dell’educazione infantile. Per chi non conoscesse la struttura base del racconto: la principessa splendente (Kaguya significa ‘notte splendente’, e abbrevia il nome ‘Nayotake no Kaguya-hime’, letteralmente ‘principessa splendente del flessuoso bambù’) nasce da una canna di bambù, viene cresciuta nel Giappone feudale dai contadini che l’hanno trovata e ha un’ascesa sublime nella società al punto di ricevere le corti persino dell’Imperatore… parabola dopo la quale, tragicamente, ritorna da dove proviene, ovvero la Luna, e viene dimenticata per sempre dalla coppia che l’ha cresciuta. Alla fine della favola originaria, inoltre, l’Imperatore rifiuta i doni lasciatigli da Kaguya prima della partenza, che includono un elisir dell’immortalità, e li brucia in cima alla montagna più alta del suo Impero (non a caso un vulcano che sprizza torri di fuoco), dandole così il nome Fuji (che vuol dire proprio ‘immortalità’; Fuji-san, la pronuncia del kanji che dà il nome al monte, invece significa ‘montagna ricca di guerrieri’ e si riferisce comunque al mito di Kaguya, secondo il quale l’esercito dell’Imperatore l’ha seguito fino in fondo). Isao Takahata già si era ispirato al ‘Taketori monogatari’ per una delle vignette del suo precedente film, I miei vicini Yamada, e non è l’unico adattamento animato — innumerevoli sono i riferimenti a Kaguya anche nelle serie più popolari della TV animata nazionale, da Doraemon NarutoKeroro Detective Conan. Esiste persino un atipico film (non animato) di Kon Ichikawa, Taketori Monogatari (1987), che reinterpreta il racconto con dischi volanti, raggi traenti, kaiju, e Toshiro Mifune nel ruolo del tagliatore di bambù. L’iconografia è subito riconoscibile e universale, proprio come la natura puramente giapponese della storia, a differenza della maggior parte dei miti più popolari nell’arcipelago nipponico, che sono perlopiù leggende cinesi come il cinquecentesco Il viaggio in Occidente attribuito a Wú Chéng’ēn. Ogni narrazione della storia si concentra sulla meraviglia scaturita dall’esistenza di Kaguya stessa, creatura sublime e spirituale, che appare nel mondo umano attraverso un evento supernaturale, e a fine fiaba tornando sulla Luna apre l’immaginazione del lettore al reame della fantascienza. Di solito la storia viene veicolata attraverso lo strazio provato dagli umani che Kaguya lascia indietro quando abbandona la Terra, come un grande rito di accettazione della morte, della Fine. La stessa Fine (di un film, di una carriera, di una vita, di una stagione, dell’era unica e irripetibile dello Studio Ghibli) con cui Isao Takahata ha deciso di accomiatarsi dalla sua carriera cinquantennale costringendo lo spettatore a riflettere proprio sull’accettazione di questa inevitabile conclusione. Tutta la matassa del racconto va nella direzione proprio del finale, che rimane spiazzante quanto nella favola originaria, se non di più per chi scopre ‘Taketori monogatari’ per la prima volta grazie a questo film. Ma il fulcro della storia è un altro, un inedito, perché per la prima volta il centro di tutto è come si sente Kaguya.

Questa premessa è essenziale, soprattutto se si prosegue nell’eterno confronto tra Takahata e il suo più celebre pupillo/collega/rivale Hayao Miyazaki, che coi suoi film Ghibli ha portato l’animazione giapponese al grande pubblico e agli Oscar. Takahata del resto è stato perlopiù un regista e non un animatore, come ha ricordato Enrico Azzano nel suo articolo su I miei vicini Yamada su questo sito, un artista che si appoggia alla forza creativa dei suoi collaboratori per creare il progetto del film. Una grande differenza la possiamo già notare nel fatto che a differenza di Miyazaki e di buona parte dei registi di anime, Takahata non disegnava. Non aveva un tratto suo, con cui distinguersi. I suoi ultimi due film, Yamada Kaguya, sono degli esperimenti su larga scala, film che sembrano disegnati a mano dal primo all’ultimo fotogramma, ma sono interamente colorati mediante tecniche digitali. Le operazioni dietro i film di Takahata sono, nella loro concezione primaria, nelle loro premesse, progetti autoriali e intellettuali, revisioni storiche e leggendarie, ognuno un ‘unicum’ a sé stante atto ad applicare una nuova visione, un nuovo sguardo: un esempio tra mille, Pom Poko da lontano può anche sembrare il più ‘miyazaki-ano’ tra i progetti di Takahata, ma è un film molto più animista e colto, anche più provocatorio, più politico delle visioni allucinatorie di Miyazaki. In Pom Poko i protagonisti procioni non sono paragonati o visti dagli umani, sono a loro (a noi) sostituiti e sovrapposti, sono eroi leggendari, che fanno da corollario ed espansione dell’esperienza umana. Ma tornando a Kaguya, la lettura in questo film della principessa splendente nata dalla canna di bambù è prettamente emotiva, un’interpretazione di un’empatia di difficile lettura; Takahata la cerca, la trova, la racconta, arrivando in età anziana a dare una personalità all’urgenza che aveva sin da quando ha sentito per la prima volta il ‘Taketori monogatari’ da piccolo.
Dunque: Kaguya da leggenda diventa umana, e la leggenda muta. Il corteo lunare che la preleva dall’esistenza terrena per farla trascendere verso la Luna, con la tragedia dell’amnesia (dimenticare la vita umana passata), diviene una ‘processione di esseri celestiali’ — come è definita dal titolo del brano d’accompagnamento del sublime Joe Hisaishi, una cavalcata gioiosa che, contrapposta all’immaginario buddhista e al chiaro aspetto drammatici nella narrazione, crea uno dei più grandi contrasti del Cinema, un’opposizione ironica che diventa tragica, il mito che ritorna al contemporaneo. L’esperienza oltreumana della principessa splendente viene ‘ridotta’ al livello dell’esperienza umana, eppure quest’ultima è resa paragonabile al sublime — ma non all’infinito. Come la favola originaria, nonostante i dirottamenti, l’interpretazione di Kaguya di Takahata rimane un rito di accettazione del ‘finito’, della morte: è la morte stessa a essere rivista e rappresentata nell’ottica dell’immaginario, del viaggio verso la Luna al termine dell’esistenza materiale. Le avances che Kaguya riceve dall’Imperatore e dai suoi sottoposti non sono viste con una cadenza fiabesca che mette la principessa splendente su un piedistallo, ma col punto di vista del dramma sociale della vita femminile, della costante ansia della presenza maschile, dell’aspettativa sociale che viene annullata dallo spirito di ribellione. Kaguya, il personaggio, diventa un Antoine Doinel per l’animazione. Il mondo attorno a lei, dal vuoto del foglio bianco, viene riempito di impressioni, da Hokusai a Frederic Back, da Kandinskij agli alberi di ciliegi di Van Gogh, dal tratto espressivo del manga alla contemplazione del passaggio interiore teorizzata da Adachi quando ha coniato il termine ‘fukeiron’.
Per fortuna, il linguaggio verbale ha limiti che la pura visceralità a cui ambisce il cinema di Takahata non ha. Il modo in cui i piccoli momenti della vita vengono rappresentati, tenendo sempre in considerazione la poesia dell’estetica wabi-sabi e la bellezza dell’intervallo temporale e spaziale come inteso da Ozu, è un qualcosa che va visto per credere. Il capolavoro ultimo di Takahata è capolavoro proprio a livello di rappresentazione, è antico e moderno, sempiterno ed effimero, ed è tornato in sala in Italia, per quanto per pochi giorni, così da poterci ammaliare e commuovere di nuovo, in uno schermo di dimensioni adeguate per esperire al massimo un racconto che porta l’intimo all’altezza del cosmico. Imparare a camminare seguendo i balzi di una rana, correre verso la Luna, imparare a volare con l’amore dimenticato dell’adolescenza: ogni scena di Kaguya è allegoria, ogni momento è la trasformazione leggendaria dell’incompiutezza della vita, nella sua semplicità, nel suo Nulla che diventa Tutto. Nello strazio, umano e divino, materiale e immateriale, spiegabile e magico, che diventa la più pura e miracolosa fra le poesie per immagini.

Nicola Settis

“The Tale of The Princess Kaguya” (2013)
137 min | Animation, Drama, Family | Japan
Regista Isao Takahata
Sceneggiatori Isao Takahata, Riko Sakaguchi
Attori principali Chloë Grace Moretz, James Caan, Mary Steenburgen
IMDb Rating 8.0

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