LA GOUMBÉ DES JEUNES NOCEURS (1967), di Jean Rouch

Pantaloni neri, camicie bianche. Camicie bianche, pantaloni neri, scarpe nere. Scarpe bianche, pantaloni neri, camicie bianche. Due ali di folla in divisa, il vuoto in mezzo. Nel cuore del vuoto, una donna danza forsennata. E sorride: il suo abito è uno schiamazzo cromatico in mezzo alle composte uniformi di ballerini e musicisti. Un grosso megafono sormonta l’automobile che chiude il corteo. Camicie bianche su pantaloni neri è il semplice dress-code delLa Goumbé des Jeuns Noceurs, il goumbé dei giovani spavaldi, il club di danzatori che annovera tra le sue fila ragazzi riuniti a Tracheville da tutto il circondario. Le regole di questo club sono semplici: ci si riunisce almeno due volte a settimana, almeno una volta al mese si organizza una sfilata per le strade, una volta a settimana si balla; per far questo, occorre rimanere in esercizio, occorre continuare a provare passi sempre nuovi. Il club è una passione, non un lavoro, tutti si prodigano l’un con l’altro e in privato, per il bene della comunità. La voce del regista fuori campo sottolinea che questi goumbé nascono in Costa D’Avorio per far fronte allo sradicamento dei migranti, trascinati dai microcosmi locali alla follia cosmopolita della città “all’europea”, dagli immigrati per gli immigrati. Si suppone che il goumbé fosse anticamente utilizzato come strumento di comunicazione tra villaggi lontani, eco dei tam tam d’Africa riecheggianti nei racconti d’avventura. È uno spaccato di umanità che va oltre cultura e costume, terminando alle origini dei sentimenti più basilari di socialità e condivisione.
Jean Rouch ama profondamente l’Umanità. Ne è incantato e stupito, tanto che decide di farne il soggetto di studio del lavoro di una vita. Ma non si accontenta degli astratti tribali dei resoconti etnografici, è interessato agli uomini reali, donne e uomini vivi e palpitanti. Per questo si appassiona alla cinematografia. Nell’arco di trent’anni di carriera finiscono di fronte alla sua macchina da presa usi, costumi e popoli dalle più svariate forme, sempre intenti nella nobile occupazione di dare un senso all’esistenza.
Comprendere lo spirito della città attraverso gli spiriti che la animano, questa è stata una delle più importanti missioni di Jean Rouch. Il fascino delle differenze che sottolineano le similitudini, Noi specchiato nell’Altro. Figlio etnografico di Marcel Griaul, cinematograficamente autodidatta ma satellite di quel cinema verité che contribuisce a generare, Rouch se ne discosta con moto apparentemente assurdo per tendere verso un documentario “di posa”. Perché è impossibile ritrarre l’uomo rimanendo oggettivi: inquadrare è selezionare, quindi ben venga che i soggetti del film ne siano anche gli sceneggiatori. Rouch vedeva nella cultura un modo per rappresentare se stessi e nel cinema un veicolo per trasmettere quel messaggio al mondo; il resto del suo cinema glielo fornì invece il progresso tecnico del tempo sulle finalmente leggere e maneggevoli Bolex in 16mm, prima a molla e poi elettriche.

L’Africa di Rouch vibra di caldi colori e di ritmi lievi e monotoni, in contrapposizione alla oscurità delle riunioni e alle selvagge ritmiche del ballo. Rouch gioca con i simboli di luce, il solare essoterico/oscuro esoterico sono luoghi comuni nella cinematografia rouchana. Ma i colori non sono una sua invenzione, quelli sono veri, reperiti in loco. La danza finale è un esempio dell’amore che questi danceus nutrono per il colore. La reciprocità e lo scambio non direttamente interessato sono alla base di una socialità che, invece di strisciare, balla fuori dagli stretti e ben arginati cunicoli della civilizzazione: il cavallo di troia d’occidente, la belva dominatrice domata da uomini che ricordano ancora d’esser tali.
La presa diretta dell’audio è quasi inedita nel lavoro di Rouch, ma completa il processo di simbolizzazione della realtà da parte del regista transalpino, in un gioco che richiama l’orgoglio pomposo con cui i giovani spavaldi si approcciano alla messa in scena d’una ufficialità seria, seppur faceta. Il gioco di serietà di questi giovani è al punto d’incontro tra il rituale adattativo, tentativo di sopravvivenza al ribaltamento culturale operato dalla città, e la scimmiottatura più fine a se stessa. Ed è chiaro il messaggio anticoloniale, è chiara la volontà di autodeterminazione dei Popoli, è chiara la radicalizzazione della cultura: alle imposizioni della città si risponde con il ritmo e con il ballo, simboli della più profonda dignità. Di qualunque cosa si tratti veramente, semmai ci fosse il bisogno di stabilire un’unica Verità, nella visione rouchana la città e i suoi valori alienano all’uomo quell’armonia che tutto questo ballare sembra tentare di ripristinare. La Città sembra voler estirpare il Mondo dal panorama immaginifico, ma esso è insito nello stesso essere dell’Uomo, un ciclo cadenzato, vorticoso, scanzonato e greve. Poi la musica si interrompe, tutto tace. Fin.

Giordano Marconi