IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO (2018), di Eli Roth

Non è più il tempo dell’horror e dello splatter, non è più il tempo dei contagi di Cabin Fever o delle ultime vacanze degli Hostel, non è più il tempo dei falsi trailer e dei falsi film realizzati per il grande amico e mentore Quentin Tarantino, e non è nemmeno più il tempo dei remake, altrettanto “tarantiniani” per riscrittura dei testi di partenza e rigorosamente tesi a esplorare “il genere”, dei figli di papà cannibalizzati guardando a Deodato in The green Inferno, delle inaspettate visite notturne di Knock-knock più che ispirate al Death game di Traynor o delle nuove e aggiornate versioni de Il giustiziere della notte. O meglio, è ancora il momento di schegge horror e thriller, è ancora il momento di passaggi segreti e di cimiteri notturni di burtoniana memoria, è ancora il momento di mostri che attaccano e di stanze che si chiudono, ma per Eli Roth, dopo sei lungometraggi e sei divieti ai minori consecutivi, è giunto il momento di addentrarsi nei territori della commedia e del fantastico per guardare al target totalmente opposto, quello dei bambini, delle famiglie, di chi al cinema ha voglia di divertirsi, di sognare e di credere alla magia. C’è il giovane protagonista orfano e costretto a superare il difficile lutto della perdita dei genitori, c’è il triplo percorso di crescita suo, del bambinesco zio che se ne prenderà cura e della vicina e amica che tornerà alla magia dopo la depressione, c’è l’orologio innestato nei muri che dimostra come il tempo possa essere più forte anche della morte, e non manca nemmeno qualche stoccata già pienamente “politica” nelle promesse assurde e nei voltafaccia post-elezioni del giovane candidato a rappresentante di classe. Ma non è su questo che Il mistero della casa del tempo vuole concentrare le proprie ambizioni, quanto sulla forma, sull’immaginario, sui tempi, sui cambi di tono, sulla continua capacità di prendere, intrattenere e stupire. Prodotto dalla Amblin di Steven Spielberg con un sapore che unisce gli immaginari anni Ottanta alle ambientazioni di trent’anni prima, quello di Eli Roth è un film ostinatamente leggero, un horror per bambini fatto di una comicità per adulti, un divertissement che mescola l’avventura e l’illusione, il trasformismo e gli incantesimi, l’amicizia e i tradimenti, gli inganni e il rapporto che cresce fra zio e nipote, la contagiosa simpatia di Jack Black che torna a fare Jack Black e lo charme sempre magnetico di Cate Blanchett in abiti di stereg(on)a, i vecchi libri di necromanzia impolverati e un (breve ma letteralmente) strepitoso Kyle MacLachlan in versione morto vivente. È un film per bambini che fa esattamente quello che deve fare un film per bambini: sin dalla torta nella casa piena di orologi che diventa con una rapida dissolvenza la ruota della corriera in marcia per raggiungerla, prende e trasporta nel suo mondo d’incanto e nella sua fantasia, nella sua casa magica e nei suoi personaggi bizzarri, strappando risate fra zucche e ferri di cavallo, fra simboli e scheletri, fra equivoci e tensioni, fra erronee levitazioni e la crudeltà dei bambini che preferiscono le stampelle ai nerd, fra le gioie e gli errori di un’infanzia immatura, alla ricerca di una propria personale e unica magia. Come un Harry Potter di Chris Columbus, meglio di un Harry Potter di Chris Columbus, con ancor più inventiva e con ancor più libertà.

Tratto da The house with a clock in its walls, romanzo illustrato di John Bellairs edito in italia con il titolo La pendola magica, e sceneggiato da Erik Kripte, Il mistero della casa del tempo è una (quasi) continua fucina di trovate brillanti, di velenosi e amichevoli botta e risposta giocosi fra i personaggi, di poltrone-cane che scodinzolano e di marionette che prendono vita, di vetrate che si animano lanciando messaggi e di infinite biblioteche. Ma soprattutto è una rilettura del concetto stesso di magia, non come diritto di nascita ma come un qualcosa da studiare e coltivare, e a cui chiunque può giungere applicandosi e credendo fermamente in quello che fa. Solo una è la condizione per diventare stregoni a tutti gli effetti: riuscire a sconfiggere uno spirito con la propria forza e i propri incantesimi. La location è il Michigan del ’55, dove il piccolo Lewis giunge nel bel mezzo della sua luttuosa infanzia, i genitori mai più tornati da uno schianto automobilistico, lo stravagante zio Jonathan unico parente rimastogli, una palla Magic8 – «l’antimagia» secondo lo zio – come ultimo regalo ricevuto dalla madre, e una passione per la lingua e per le parole che lo porta a studiare i dizionari come se (già) fossero libri di formule magiche. Dall’altra parte, appunto, uno zio mai conosciuto, eccentrico nei suoi kimono e nel suo sax con cui disturba l’intero vicinato a notte fonda, nei nomignoli con cui si appella in continuazione con la vicina e cara amica Florence, nelle zucche di Halloween che rimangono tutto l’anno a circondare la casa e nei misteriosi ticchettii che avvolgono la casa durante la notte. Ticchettii che cercano di coprirne uno solo, quello dell’orologio innestato nelle pareti della casa dal precedente proprietario, Isaac, stregone ben più potente di zio Jonathan impazzito per la guerra e corrotto da un demone, morto realizzando un misterioso e terribile piano criminale di chiavi d’osso e di orologi incassati nei muri di cui Jonathan e Florence non sanno nulla. Sanno solo che è necessario trovare prima possibile l’orologio, sanno solo che è estremamente pericoloso, sanno solo che va fermato, ma i dettagli sono nascosti nei codici cifrati e ancora avvolti nel mistero. Fra costellazioni che prendono magicamente forma in giardino e leoni alati di siepe, fra amuleti per tenere lontano il male e comparsate nei quadri, a metà strada fra Hitchcock e il maestro Tarantino, del regista Eli Roth, Lewis e zio Jonathan si scopriranno «i cigni neri» della famiglia, in un rapporto destinato a farsi sempre più profondo fra incantesimi e incomprensioni, fra piccoli segreti e avventure vissute insieme. Magari con il terzo cigno, quello viola, Florence, tornata indomita nel momento del bisogno alla magia dopo il suo lutto e la distruzione della sua famiglia, in una storia così malinconica e così simile a quella di Lewis. Fino alla nuova famiglia, al nuovo idillio che chiude il cerchio morale del (triplo) romanzo di formazione, passando per il risveglio e per la sconfitta di Isaac con cui Lewis scoprirà la reale entità dei suoi poteri.

Voleva solo un amico, Lewis. Voleva impressionarlo, voleva legittimare lo zio e la sua magia, voleva sentirsi normale, sociale, accettato, e non bastava una palla di fuoco per farlo, serviva qualcosa di più, serviva qualcosa di grosso, l’unica cosa proibita. E così, come un novello Pinocchio tentato dal suo personale Lucignolo, si è trovato in un cimitero a riportare in vita il più potente e pericoloso fra gli stregoni malvagi. Non sapeva la storia di Isaac, lo zio non gliela aveva voluta raccontare, e non poteva sapere quanto fosse dannosa la sua mossa, quanto grande fosse l’errore a fidarsi delle ingannevoli apparizioni nei sogni di una non-madre. È l’innocenza dei bambini, è il loro non poter conoscere le conseguenze. Ma è anche la loro intelligenza che, fra intraprendenza ed entusiasmo, risolverà i problemi e vincerà la battaglia. È un telefilm a permettere a Lewis, in un’irresistibilmente spassosa esplosione di caramelle, di decifrare i codici di Isaac, di capire la natura dell’orologio del giudizio in grado di invertire il tempo e così cancellare l’umanità, e di capire dove è collocato nella casa magica, fatta di passaggi segreti e di stufe, di oggetti che prendono vita e di poteri malvagi che nonostante le difese finiscono per insinuarsi e prendere il controllo. Eli Roth, da incallito cinefilo, lavora sul genere guardando a Sam Raimi e si diverte con le citazioni hitchcockiane, fra stormi di libri che attaccano come Gli uccelli e apparizioni nella casa di fronte che non possono che ricordare La finestra sul cortile, mentre anche le zucche, da difesa, diventano oggetto del male, e il tempo rimasto per trovare l’orologio prima che possa essere attivato si assottiglia ogni minuto. Sia chiaro, non tutto il film riesce a mantenere la stessa tensione e intensità narrativa, qua e là c’è qualche momento in cui il procedere forse tende a sfilacciarsi o per lo meno a ristagnare, se è ben chiara la fine che farà il malvagio Isaac altrettanto non si può dire per la sua parimenti malvagia (e viscida) moglie che semplicemente sparisce dalla narrazione, e forse a qualcuno potrebbe sembrare che, quando la maestosità dei colossali ingranaggi dell’orologio viene fermata dalla minuscola palla Magic8 di Lewis, la montagna stia partorendo un topolino. Ma c’è un significato molto più profondo, nella palla di Lewis, in quel regalo materno, in quella «anti-magia» che diventerà la sua personale magia, la sua via per sconfiggere il più pericoloso fra i nemici, la sua potenza come giovane stregone. C’è la forza dell’amore, c’è la capacità di cristallizzare la malinconia nell’incantesimo, di fare del proprio doloroso passato la propria forza per il futuro. Magari non raccontando a Florence di quando zio Jonathan, «il testone», è stato fulminato da Isaac e trasformato in poppante con la smisurata testa di Jack Black. Non gli farebbe più fare vita, a furia di riderne!

Marco Romagna