20 Giugno 2024 -

HERE WE ARE (2024)
di Chanasorn Chaikitiporn

Nel 2016 era già stata Anocha Suwichakornpong, con il suo By the time it gets dark, a dischiudere gli occhi del cinema sul massacro dell’Università Thammasat del 6 ottobre 1976, perpetrato dall’esercito e da gruppi paramilitari di estrema destra sugli studenti in protesta a Bangkok. Una pagina fra le più cupe della travagliata Storia recente della Thailandia, fatta di atroci torture e di centinaia di giovani uccisi, di vilipendi di cadavere e di foto sorridenti degli aguzzini con i propri trofei umani, di un senso di minaccia, di trauma e di ricatto che nel tempo ha plasmato un’intera generazione spingendola a diventare esattamente quello che da giovane aveva tentato di combattere, politici e padroni che continuano a sfruttare le classi sociali più povere. Del resto, fra la fine dell’assolutismo monarchico del 1932 e il 2014 dell’ultimo – verrebbe quasi da aggiungere “per ora” – golpe militare, il Paese ha visto susseguirsi ben diciannove colpi di Stato, dodici riusciti e sette falliti, in uno schema sempre imprevedibile eppure sempre uguale di prese di potere e di leggi marziali, di brevi momenti di relativa democrazia e di lunghi periodi di aperte dittature, di partiti messi fuori legge e di repressioni anche violentissime di chiunque osasse sollevarsi o anche solo pensare troppo. Un’instabilità e un sistematico soffocamento della democrazia che sono propri ben più di un regime anocratico/pretoriano che di una monarchia costituzionale, non per nulla talmente instabile da aver cambiato più di venti volte la Costituzione in meno di un secolo, mentre a rimanere immutabile sin dal cambio di denominazione deciso nel 1939 per smarcarsi dall’origine cinese del ‘vecchio’ nome Siam c’è stata la fedeltà, anche contro il proprio stesso popolo, all’Occidente e agli Stati Uniti, in una sostanziale criptocolonizzazione mascherata sotto il cappello SEATO con cui, negli anni della Guerra Fredda, lasciarsi liberamente usare come base militare strategica nelle guerre contro le rivoluzioni socialiste del Sud-Est Asiatico. È per questo che si apre proprio con uno dei filmati (di propaganda) della SouthEast Asia Treaty Organization, l’interessantissimo Here we are con cui il ventisettenne Chanasorn Chaikitiporn condensa in poco più di diciannove minuti la sua brillante riflessione al contempo storica, politica, sociologica e cinematografica. Un sostanziale documentario di finzione su ciò che si può vedere e su ciò che invece si può solo ricordare, destinato a rimanere fuori dal campo perché inesistente negli archivi e proprio per questo ancor più fondamentale da recuperare nella memoria collettiva.

Tanto che, a scandagliare quarant’anni di Storia e di eredità socioculturale nella Thailandia di oggi, possono perfettamente essere i vecchi filmati americani e le riviste che celebravano in doppia lingua l’(inutile) alleanza difensiva, oppure i bassorilievi e le colonne in giro per la città, o ancora una vecchia casa ancora piena di oggetti e le inquadrature al neon della Bangkok contemporanea. Per riempire quello che manca basta raccontarlo, e immaginare. A partire dalla risposta immaginaria di una madre immaginaria, ormai anziana dopo un’intera vita di sacrifici lavorando come domestica, a un’altrettanto immaginaria figlia regista che le ha spedito il suo ultimo lavoro. Un film chiaramente a sua volta immaginario, che non esiste e che non vedremo mai, proprio come non esistono e non si possono vedere le immagini della repressione militare sui civili, proprio come non esistono e non si possono vedere le immagini di quel fratello uscito per andare a una manifestazione e mai più tornato, proprio come non esistono e non si possono vedere le immagini del massacro all’Università del 6 ottobre dal quale si era in qualche modo salvata la “Zietta”, donna marxista e illuminata e poi gentile nell’accogliere in casa la governante rimasta sola con la figlia. Eppure un film capace di risvegliare nella genitrice che ammette candidamente di non averlo capito un’intera marea di ricordi, dal paese alla città, dalle tragedie di famiglia a quelle vissute dalla “Zietta”, dai lavori più umili a quella casa piena di libri e di inaspettato affetto reciproco a cui badare fino a ereditarla. Dai cambiamenti (gattopardeschi) del Paese a quella ricca amica di città con cui continuare a scambiarsi lettere fino a non sentirla mai più, forse troppo lontane nella classe sociale o forse troppo vicine nell’umanità e negli ideali per non essere represse, forse sparita per scelta (più o meno) volontaria ma ancora sana e salva, o forse sparita nel nulla e per sempre in qualche altra rappresaglia militare.

Del resto è a ben vedere proprio il concetto stesso di immagine mancante, ciò che rende più evidente il filo di programmazione e di riflessione politica che lega questo Here we are, già lo scorso febbraio all’ultima Berlinale in Forum Expanded, a una buonissima fetta delle altre opere con cui condivide il concorso principale della 60ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Una coerenza (rithypanhiana) evidente, che parte dalla prigioniera singaporiana immaginata sotto torchio da Daniel Hui nei «tardi Sessanta» di Small hours of the night per raccogliere insieme nella sua testimonianza (e nei nastri bruciati, e nei documenti vuoti) frammenti di decine di storie tutte diverse e tutte uguali di un’unica repressione, che passa per l’urgenza contemporanea dell’ecoterrorismo della ZAD visto (anche se forse non davvero vissuto fino in fondo, troppo estetico ed estatico per non perdere almeno qualcosa in sincerità) da Direct Action di Ben Russell e Guillaume Cailleau, che ritorna al(la necessità del) pre-umano di 2001 Odissea nello Spazio con le scimmie, le pietre e le modifiche umane abbandonate di Shambhavi Kaul e del suo Slow shift, che grida il suo allarme ambientalista in maniera esplicita con le palme in estinzione del Terminal Island di Sam Drake o fra le righe con il traffico vertoviano di Materia vibrante del cileno Pablo Marin, che fa un salto nel futuro con il lynchano Spark from a falling star di Ross Meckfessel, e che infine deflagra nelle immagini, più volte rubate per distruggerle ma parzialmente ritrovate, con cui il magnifico e importantissimo A Fidai Film di Kamal Aljafari tenta di restituire una Storia e un’identità al martoriato popolo della Palestina, censurando nel frattempo apertamente e con il rosso del fuoco e del sangue tutto ciò che è israeliano. Ma pure le micro-teste di terracotta “spettrali” dell’ottimo horror sperimentale Hexham Heads dei belgi Chloë Delanghe e Mattijs Driesen, scomparse da decenni e quindi ormai invisibili ma non per questo meno ineluttabili nella loro maledizione, sono a ben vedere immagini scomparse da ricostruire, mentre esattamente all’opposto i trompe-l’œil di Elena Duque e dei suoi giocosi (ma non per questo meno brillanti nella teoria) Ojitos Mentirosos nient’altro sono che immagini apparentemente reali che rappresentano un qualcosa che forse nemmeno esiste, e che solo il disvelamento del trucco ottico può ricontestualizzare per ciò che è. Un vero e proprio percorso nelle modalità di (ri)costruzione e di riappropriazione attraverso la messa in dialettica di opere diversissime per linguaggi e soluzioni, che può passare senza alcun problema da una voce fuori campo o da una didascalia di propaganda che manipola il senso di ciò che si sta per vedere, da un’astrazione o da un ben preciso episodio storico al quale girare attorno, dalla memoria insanguinata di un intero Popolo o da un’aperta messa in scena con cui immaginare la finzione attraverso cui poter raccontare la realtà sociale di ieri, e quindi di oggi e di domani. Da una madre, da una figlia e da un film che non esistono, eppure fondamentali e inestimabili depositari e narratori del vero, della Storia, delle ferite della Thailandia, di come le cicatrici (di fatto) coloniali siano state naturalmente assorbite (o violentemente fatte assorbire) e portate avanti nei decenni senza nemmeno rendersene conto. Del senso stesso del Cinema, forse. O per lo meno di uno dei suoi sensi possibili e più pressanti.

Marco Romagna

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