Il metafisico, il materiale, l’intrinsecamente politico, il mistico, il sogno, l’attesa, la vita (dopo) la morte, la solitudine, il corpo, lo spirito, il paesaggio, l’inseguimento, le diverse culture, la cosmogonia, le ingiustizie sociali, l’ineluttabilità del destino, l’impossibilità di comprendere realmente i misteri del mondo. Ma anche l’unica possibile via di fuga attraverso uno spazio geografico e una linea del tempo (del resto il tempo «non esiste, è una finzione inventata dagli esseri umani») da elidere, da spostare a piacimento o da dilatare nelle sospensioni e nei silenzi, mentre l’azione rimane quasi rigorosamente ai limiti del fuori campo, imprigionata nell’anticlimaticità delle ellissi, delle testimonianze, delle impressioni, delle evidenze, delle poche parole, delle profondità degli sguardi. E poi ancora lo spessore della speculazione filosofica, la colpa, la mancanza, la frustrazione, l’alienazione, la Fede. L’identità straziata e mutevole di un’anima in pena e in eterna peregrinazione: indigeni come fantasmi, destinati a non trovare mai pace. Del resto lo dice apertamente quasi subito, rivolgendosi al pistolero interpretato da Viggo Mortensen appena giunto nella cittadina del Vecchio West, il personaggio che Lisandro Alonso, nel folgorante incipit del suo nuovo Eureka, affida a Chiara Mastroianni: «C’è differenza fra chi si pensa di essere e chi realmente si è». È per questo che, nella struttura rigidamente tripartita di un film fatto di tre storie (quasi) del tutto indipendenti per genere, ambientazione, epoca, protagonisti, cast e soluzioni visive, eppure sovrapposte e intrecciate nella geniale e improvvisa apparizione di uno schermo televisivo che nega il primo finale o nel poetico volo metempirico di una disperazione che in qualche modo ha trovato il modo per liberarsi dei suoi fardelli, il senso delle narrazioni e dei personaggi è in sostanza sempre lo stesso. Tanto che potrebbe essere un film potenzialmente infinito, Eureka. Un profondo, complesso, iperstratificato e potentissimo mosaico di vicende, non necessariamente con un inizio o una fine, che non possono che essere d’infelicità e di ieratica attesa, di sogni e di (dis)illusioni, di sfruttamenti e di frizioni culturali, di frustrazioni disperate e di legami intensissimi. Di ancestrale esistenzialismo. Storie di genitori e di figli, di amore e di morte, di trascendenze e di immanenze, di evoluzioni spirituali ammantate di panteismo che viaggiano liberamente attraverso i cambi di dimensione e di cinema, rompendo le barriere dello spazio, del tempo, della narrazione, della religiosità, della messa in scena, della lingua parlata e cinematografica. Storie che possono non superare la mezz’ora ed essere piene di avvenimenti oppure estendersi ben oltre i 90 minuti senza che quasi succeda niente, storie che possono essere ambientate nel West, nella greve contemporaneità di una riserva indiana del South Dakota oppure nel Brasile degli anni Settanta, storie che possono essere parlate in ogni lingua dall’inglese al portoghese passando per idiomi indigeni ormai pressoché estinti, storie che possono innestarsi in ogni genere e in ogni formato, essere incorniciate dai bordi stondati di qualsiasi mascherino, essere fotografate in bianco e nero come a colori.
Ciò che conta è il loro eterno e ineluttabile trasmigrare e reincarnarsi sempre diverse ma sempre identiche, in altri momenti e in altri luoghi, in nuove storie e in nuovi spiriti. Quello dell’ennesimo padre disposto a tutto pur di ritrovare una figlia, forse. Ma anche quello di una zia poliziotta caucasica in pattuglia notturna nella mancanza di aiuto e nella bufera di neve, quello di una nipote di sangue indigeno che per trovare la pace non potrà fare altro che rendersi conto di essere «pronta a migrare», quella di un nonno che poeticamente la accompagnerà nel suo viaggio, quello di una ragazza che sembra uscita direttamente da un quadro di Gauguin da amare e per la quale essere disposti a uccidere per non morire, o ancora quello di un giovane in fuga dalla colpa che sogna di migliorare le sue condizioni di vita e che invece non otterrà altro che pochi spiccioli e una cura primitiva per trovare l’oro con cui arricchire fino alla morte gli sfruttatori bianchi mentre i loro treni portano via il frutto della sua fatica, quello di un amico traditore o quello di un amico incarcerato, quello di una giovane forse violenta che di sicuro ha bisogno del bagno o quello di un ubriacone nemmeno in grado di procedere dritto, quello dello stregone che, proprio come fa da sempre il cineasta argentino, cerca nel costante sovrapporsi di sogno, spazio, tempo, (s)fortuna, terreno e spirituale i ponti da tendere fra i diversi mondi. Forme possibili, differenti e coerentissime dell’immaginario di Lisandro Alonso, che con la sua consueta eleganza formale ammanta di fascino ammaliante e di strabordante potenza espressiva ogni singola inquadratura (il lungo trasporto in barca pedinato a pelo d’acqua, le piume e la tazzina vuota di caffè che accompagnano il volo dell’anima, le ipnotiche luci rosse e blu dei lampeggianti, ma anche il sole che filtra fra i rami e la bufera di neve che impazza davanti ai vetri della finestra) che compone le due ore e mezza abbondanti di Eureka, per girare ancora una volta attorno alle sue tematiche e ossessioni di riferimento, alle sue indagini fino al fondo dell’anima dei personaggi, al suo profondissimo e personalissimo spiritualismo. E poco importa se la terza parte, affascinante nella sua potenza visiva ma in definitiva non a fuoco quanto le altre, può forse risultare un po’ meno puntuale e necessaria rispetto alle prima due: serve a rilanciare ancora il discorso, a espanderlo e a immergerlo nel nuovo mistero di un’altra metamorfosi e di un’altra dimensione, e a suggerire la possibilità di chissà quante ancora. Un ritorno, dietro alla macchina da presa (e al Festival di Cannes, nella CannesPremière dell’edizione numero 76) atteso ormai da nove anni, con cui il cineasta argentino spiazza e depista in una struttura episodica che parte da un western di attese leoniane, ma in 4/3 e in bianco e nero, nel quale sin da subito far reincarnare fra polvere, cowboy, cadaveri e puttane il precedente e straordinario Jaujia variando sui medesimi temi, sui medesimi personaggi, sulle medesime azioni e reazioni, sui medesimi fuori campo e sullo stesso attore protagonista, per poi rivelare il film nel film nell’improvviso passaggio all’1,88:1 e al colore, e da qui virare sulle più antonioniane alienazioni, venate però di una suspense angosciante ai limiti del noir, di una famiglia intrappolata nel gelo invernale dell’oggi e del più desolante squallore di un quotidiano da qualche parte fra Fargo e Twin Peaks, e chiudere infine con il volo delle ali eterne di una fenice sugli anni Settanta di un Brasile sospeso fra il sogno e il latifondismo, e sul loro realismo (non troppo, o forse niente affatto) magico, ma al massimo metafisico nel riavvicinarsi a Los Muertos guardando più o meno apertamente ad Apichatpong Weerasethakul. Un percorso diviso in prologo, svolgimento ed epilogo che non vuole lavorare per contrapposizioni ed enunciare una tesi, un’antitesi e una sintesi, ma che al contrario vive di accumuli e di parallelismi, di personaggi e di destini sempre diversi ma sempre uguali, di eterne ripetizioni e di variazioni sui medesimi temi con cui rievocare all’infinito gli stessi fantasmi, gli stessi vacui incontri, gli stessi rapporti umani. Per un film di silenzi e di improvvise frasi-chiave, di costanti richiami interni ed esterni e di contatti a vuoto sulla radio della polizia, di attrici con l’auto in panne che escono dallo schermo ma non smettono mai di recitare una parte e di fughe dalla desolazione che, nel loro viaggio nello spazio e nel tempo, non potranno che innestarsi in una nuova desolazione. L’ennesima straordinaria sortita di un autore sublime.
Marco Romagna