EL INVIERNO (2016), di Emiliano Torres

Emiliano Torres ha una lunga esperienza come assistente alla regia e sceneggiatore, eppure i principali problemi di questo suo esordio dietro la macchina da presa (questa volta però, qui a San Sebastián, in concorso nella selezione ufficiale) sembrano palesarsi proprio a livello di scrittura. Intendiamoci, il film ha un impianto chiaro e una struttura circolare che è davvero impossibile non notare, eppure la caratterizzazione dei personaggi scivola via troppo vaga e con lei tutto quello che dovrebbe riempire il tempo del racconto.
Il grande protagonista di El Invierno, e di questo il regista pensava probabilmente di poter campare, è il paesaggio sterminato della Patagonia, dove nulla sembra sentire il tempo a parte gli uomini – e forse nemmeno loro. La rendita proveniente dall’ambientazione però non basta, perché le storie al cinema si muovono a traino delle azioni umane e nel film di Torres, che non è per niente anti-narrativo, queste ultime non hanno mai la potenza del paesaggio e finiscono ogni volta per scomparire al suo cospetto, passando quasi inosservate.

Paesaggio
Il film si apre su Evans, supervisore di un ranch che produce lana, mentre riceve la squadra di braccianti per la nuova stagione. Ogni anno è la stessa routine, solo che questa volta, finito il lavoro, il vecchio Evans viene licenziato per far spazio a un supervisore più giovane, Jara. La nuova proprietà ha deciso di inaugurare un nuovo corso. I personaggi passano attraverso un durissimo inverno, poco dopo il termine del quale anche Jara perde il posto. Produrre lana non è redditizio come i nuovi proprietari si aspettavano, meglio usare la terra per qualcosa che sia più al passo con i tempi.
Dicevamo della caratterizzazione dei personaggi. Se deve muoversi all’interno di un universo dove le azioni umane non sembrano avere il potere di modificare il tempo né il paesaggio, a un regista non rimane che riporre il cuore della sua storia nei gesti. E il problema qui è proprio che i gesti degli attori in scena, che pure ci sono e in qualche modo indicano la via alla narrazione, hanno un effetto sempre smorzato, tanto che nonostante ci si trovi davanti a un racconto di sopravvivenza anche piuttosto crudo, i ripetuti atti di volontà dei personaggi sembrano sempre elementi secondari e finiscono ogni volta per scomparire l’uno in coda l’altro. Non possono avere un fine al di fuori di sé, e va bene, ma nemmeno sembrano intenzionati ad averne uno di per sé.
Dal punto di vista narrativo è difficile inquadrare il film di Torres in un genere preciso, eppure se fossi costretto a sceglierne uno direi che El Invierno è un western. Ha un’ambientazione western, dinamiche western e una certa idea primitiva ed essenziale della vita come lotta per la sopravvivenza che è tipica dei film western. Eppure del western non ha i momenti narrativi salienti. El Invierno sembra un film realizzato da qualcuno che ha voluto vedere cosa succede a giocare un western di fino, eliminando tutte quelle grossolanità narrative che in un certo senso definiscono il genere. E la risposta è che no, non funziona. Il motivo a mio parere ha a che fare proprio con il paesaggio. L’impressione è che i generi ad ambientazione forte (come appunto il western, ma per esempio anche la fantascienza), quelli in cui il paesaggio fa un buon cinquanta percento della caratterizzazione, devono per forza usare la grana un po’ più grossa quando presentano gli eventi della storia. Devono calcare di più i gesti, irrigidire la morale dei personaggi, costruire racconti più schematici, magari anche alzare il volume della musica e usare il Technicolor – perché senza questi accorgimenti, il paesaggio rischia di mangiarsi ogni altro elemento del racconto, svuotando di senso l’intera operazione.

Il resto del mondo
Nei film western quasi mai esiste un tempo al di fuori della storia o un mondo esterno alla comunità che ne è protagonista. In El Invierno, invece, più volte si accenna a luoghi altri, al resto del mondo. Fuori dallo spazio del racconto accadono addirittura cose che influenzano gli eventi in scena. I nuovi proprietari del ranch sono stranieri, si discute della lana cinese che ruba il mercato a quella argentina e più significativo ancora alla fine del film il paesaggio assoluto della Patagonia si ritrova sull’orlo di una transizione che più mondana non si può, quella da sistema industriale a economia dei servizi. Tutto questo nonostante Torres chiuda il terzo atto esattamente come aveva cominciato il secondo, con il licenziamento del supervisore di turno, confermando quell’idea di circolarità immobile e autoreferenziale che permea tutto il film. Ma proprio con l’inserimento di queste allusioni al mondo esterno (verrebbe da dire al mondo reale, attuale), il regista in qualche modo trasforma la generale debolezza narrativa del suo film in una nota suggestiva a livello di senso, ricavandone una sorta di morale finale – perché anche quando alle azioni dell’uomo viene riconosciuto un ruolo nel cosmo, il paesaggio continua ad apparire autoconcluso e ad un certo livello addirittura sovrumano. Naturale. Come se i due universi avessero trovato il modo di interagire senza toccarsi. Per un film di finzione probabilmente non è abbastanza, ma è comunque qualcosa.

Mario Aloi