CHYTILOVÁ VERSUS FORMAN – CONSCIOUSNESS OF CONTINUITY (1982), di Vĕra Chytilová

Correva l’anno 1981. Erano passati quasi vent’anni da quel 1962 di incontri fra François Truffaut e Alfred Hitchcock dai quali nacque, appunto, Il cinema secondo Hitchcock, libro-saggio fra i più importanti di ogni tempo, e più di dieci da quando Miloš Forman, in seguito alla Primavera di Praga, aveva deciso di abbandonare la natìa Cecoslovacchia per trovare una nuova vita negli Stati Uniti. Nel frattempo Vĕra Chytilová, compagna di barricata di Forman ai tempi della Nova Vlná, aveva compiuto una scelta di vita e di carriera opposta: aveva deciso di restare, esposta alla censura e all’ostracismo delle autorità ceche sotto occupazione sovietica nei confronti suoi e del suo cinema, per continuare a lottare dall’interno per l’equità sociale e per la libertà. Proprio come Il cinema secondo Hitchcock di Truffaut, ma per immagini anziché su carta, anche Chitilová versus Forman – Consciousness of continuity, probabilmente il film più raro fra quelli di Vĕra Chytilová (finalmente) omaggiata dal DocLisboa2017 con la prima retrospettiva completa magistralmente curata da Boris Nelepo, non è semplicemente un’intervista, ma è prima di tutto un confronto dialettico, artistico, etico e politico fra due sommi cineasti. Un confronto a volte anche duro, umano e personale prima ancora che strettamente cinematografico, un confronto fra chi ha le stesse radici e gli stessi traumi, fra chi ha la stessa passione per la celluloide e lo stesso afflato umano e sociale, fra chi ha lo stesso talento e (per lo meno ha avuto) lo stesso tocco caustico nel metterlo al servizio dello schermo. È un confronto fra chi, ben al di là delle differenze, ha la stessa coscienza, sente un forte e inossidabile legame, e non potrà che rendersene conto in una forte linea di continuità e amicizia, esplosiva di commozione nell’abbraccio finale.

Eppure, nel 1981 di questo incontro fra Londra e New York fra i due apolidi artisti cechi, uno di loro vive rilassato nell’opulento occidente, non ha mai più nemmeno parlato una parola di ceco e colleziona premi Oscar, mentre l’altra, frustrata e depressa, nervosa e sempre più graffiante, è costretta a girare questo lavoro quasi di nascosto durante un sostanziale embargo lungo sette anni impostole dalle autorità, con la scusa di un viaggio di piacere che “casualmente” comprendeva i luoghi nei quali Forman era intento nelle riprese del suo Ragtime. Vĕra Chytilová, non si sa se per scelta, necessità della committenza televisiva o espressa richiesta di Forman e dei suoi traumi giovanili allontanati a colpi d’accetta, pone le sue domande in francese, mentre l’intervistato risponde in inglese, la sua “nuova” lingua. È un sostanziale Il cinema secondo Miloš, nel quale la domanda fondamentale che Vĕra Chytilová pone a Forman, “perché fai cinema?”, è una e apparentemente semplice, ma in realtà nasconde al di sotto della sua superficie infinite altre domande, di identità e di etica, di autorialità e di politica, e soprattutto di vita, fra Praga e Manhattan, fra la burocrazia e il compromesso.

Chi ha avuto ragione? L’apprezzato regista ormai affermato nel sistema hollywoodiano, ospite fisso di una lussuosa camera al Chelsea Hotel le cui mensole traballano sotto il peso dei premi? O la cineasta che ha deciso di rimanere nella nicchia, che ha deciso di anteporre la propria autorialità e la propria appartenenza al possibile successo, che ha deciso di continuare a muoversi dai bassifondi per rimanere coerente fino in fondo con il suo pensiero e con il suo cinema? Forman, nella sua decisione di partire per l’America per realizzare, giusto per citare i maggiori capolavori, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Hair e poi i successivi Amadeus e Man on the moon ha in sostanza tradito le radici o ha semplicemente trovato la sua dimensione ideale? E, sul versante strettamente cinematografico, adattandosi alle politiche hollywoodiane di centralità della “storia” e di regista il più possibile invisibile il cui linguaggio che deve essere funzionale alla narrazione e non il contrario, ha trovato il giusto punto di equilibrio e la propria evoluzione oppure ha sostanzialmente svenduto la sua autorialità? O magari, forse, è proprio Vĕra Chytilová a non aver trovato il coraggio di cambiare vita e Paese, a non essersi sufficientemente evoluta, finendo in sostanza per autocondannare il suo talento al silenzio? La verità sta nel dubbio, forse. Nell’equilibrio. O nello specchiarsi.

Chytilová versus Forman, ben al di là dei gustosi momenti di “dietro le quinte” sul set di Ragtime e delle dissertazioni tecniche su come dirigere gli attori, è questo: analisi e autoanalisi, costante confronto artistico e politico. Sono domande incalzanti, magari scomode, alle quali Forman risponde con piena sincerità e la flemma di chi ha trovato il suo punto di equilibrio ed è finalmente rilassato, libero, felice. Magari, perché no?, in pigiama, ancora a letto, mentre incendia il primo sigaro di giornata prima ancora di mettere qualcosa sotto i denti, oppure poco più tardi, mentre mangia avidamente una paella sfoggiando la più brutta fra le sue canottiere. Informalmente, fra amici, come è giusto che sia. L’America è ormai il suo ambiente naturale, ma Praga, specialmente quella Praga prima vittima della sua stessa macchina statale e poi dei carri armati sovietici, è un qualcosa che non si può davvero recidere, è un qualcosa che rimane nel sangue, sotto la pelle. Per quanto ci si possa provare nella vita rinunciando alla lingua, e sul lavoro chiamando a co-sceneggiare statunitensi doc mentre si mettono in scena romanzi e situazioni che con la Repubblica Ceca non c’entrano nulla, Praga è rimasta indelebile nel cinema di Forman, come un marchio a fuoco, come un’impronta d’autore, come base dalla quale è sempre stato impossibile non ripartire. È rimasta nella profonda dignità umana che sempre pervade lo schermo, è rimasta nell’orgoglio e nella voglia di libertà dei protagonisti delle sue storie, è rimasta nell’afflato politico, nelle tematiche, nelle fonti di ispirazione. È rimasta nella necessità intima di fare cinema, di produrre immagini, di emozionare un pubblico con la propria soggettività.

Perché, come dice espressamente Forman, “Un film è un mosaico di storie, non un monolito”, e nel momento in cui un autore si accinge ad adattare per lo schermo una qualunque storia, non si può non percepire il suo tocco nell’unire un libro a una realtà, non si può non percepire il suo interesse per i rapporti fra gli esseri umani, non si può non percepire il suo vissuto, ben al di là del linguaggio scelto di volta in volta perché ritenuto il migliore possibile per raccontare quella determinata storia. È una questione di metodo, anche se “non esiste una vera e propria formula”, ed è bello trovare film dopo film la propria via per esprimersi, la propria evoluzione autoriale, la propria libertà artistica. Quella stessa libertà che è “coscienza di continuità” fra Vĕra Chytilová e Miloš Forman, che siano gli zoom e le inquadrature fuori bolla di Vĕra o gli intensi primi piani sugli schiavi di colore che stava girando Miloš, che siano gli appunti etici di lei o le dissertazioni di lui sulla necessità che un attore creda a quello che sta mettendo in scena. Chitilová versus Forman – Consciousness of continuity sono due conterranei, due artisti, due amici, che si ritrovano dopo anni a parlare di come tutto sia cambiato, ma fra loro non sia mai cambiato niente. Si ritrovano a parlare di cinema, di tecnica, di impronta, di visione del mondo e della loro arte. Sono due artisti-cardine della Nova Vlná e della modernità cinematografica, diversi nelle scelte, ma legati da un filo invisibile, robusto, impossibile da tagliare. Come un abbraccio chiamato libertà.

Marco Romagna