23 Maggio 2024 -

CE N’EST QU’UN AU REVOIR (2024)
di Guillaume Brac

Il documentario, la finzione, il rimettersi in scena, il reale, il verosimile, il sincero, il ricostruito, l’immaginato, il simbolico. Non importa necessariamente distinguere: è tutto semplicemente (un) cinema. Quello, apparentemente semplice e invece sempre sorprendente nella delicatezza, nella precisione e nell’assoluta sincerità del suo sguardo, con cui Guillaume Brac dal 2013 di Tonnerre (ma in realtà già da prima, con i numerosi cortometraggi realizzati sin dai primissimi 2000 e con il medio Un monde sans femmes del 2011) esplora e lambisce quasi ogni genere per scandagliare gli animi umani e i momenti di passaggio, fra perdite e consapevolezze, fra alleanze e tradimenti, fra ossessioni e vie di fuga. Un percorso autoriale che, con o senza l’attore feticcio Vincent Macaigne, da una parte si muove liberamente fra il melodramma, il thriller e la commedia drammatica, in una dichiarata finzione che non perde mai il vero e la spontaneità degli altri non professionisti che fanno da co-protagonisti né la base antropologica su cui Brac costruisce le sue narrazioni, mentre dall’altra si protende verso un cinema del reale che, al contrario, non rinuncia mai alla medesima eleganza e alla precisione poetica e metaforica del cinema messo in scena. Non limitandosi mai a una semplice osservazione con camera a mano, e pure cercando al contempo di evitare il più possibile i reenactment in cui un protagonista re-interpreta se stesso a favor di cinepresa. La verità dei film di Brac, che siano scritti e immaginati oppure no, è una questione di punto di vista, di profondità (visiva, concettuale) e di fuori campo, di spazi da riempire e di spazi da lasciare, di giusti momenti in cui tagliare e di giuste distanze di una macchina da presa per lo più fissa e che deve necessariamente rimanere il più possibile invisibile: umanissima ed emotivamente vicina ai suoi protagonisti, quanto fisicamente ben attenta a non disturbare e a non condizionare gli episodi dell’esistenza che le scorrono davanti. Pronta a cogliere non un’hitchcockiana “fetta di torta” ma una vera e propria “fetta di vita”, o per lo meno la sua parte più rappresentativa, frutto di un insistito lavoro sommerso eppure evidente di avvicinamento, di condivisione, di progressiva conquista della più totale fiducia e della più assoluta autenticità. Un periodo di preparazione e di ricerca di affinità del quale le riprese sono solo la piccola parte visibile, impossibile da ottenere senza mesi di pazienza e di concreta, personalissima partecipazione, in un lungo lavoro simile, giusto per fare qualche esempio, a quello da sempre svolto con ambizioni e linguaggi del tutto differenti da Jonas Carpignano o dal primo (e rimpianto, nonostante l’evidente ripresa dopo lo scivolone di Louisiana) Roberto Minervini, ma anche da Mauro Santini nelle sue incursioni “scolastiche” con Giorno di scuola e Le belle estati, o ancora, o forse per meglio dire soprattutto, dal Damien Manivel del magnifico L’Île, con cui questo interessantissimo Ce n’est qu’un au revoir, a partire dal sentimento di fine imminente (del liceo, e quindi di una fondamentale scheggia di vita, fra amicizie e ultime esperienze), presenta ben più di un allele in comune.

A ben vedere sta già tutto nel titolo, il senso del brillante ritorno al documentario di Guillaume Brac, sei anni dopo il lungo L’île au trésor ma solo pochi mesi dopo il medio Un pincement au cœur che per molti versi, con i suoi discorsi reali di gioventù e la sua amicizia che entra in crisi nell’avvicinarsi alla separazione, anticipava questo lavoro. Ce n’est qu’un au revoir, “non è che un arrivederci”, pur perfettamente consapevoli che non potrà che trattarsi almeno in parte di un addio. Perché sì, almeno qualche amicizia rimarrà, e auspicabilmente si protrarrà per tutta la vita, ma non ci saranno mai più quelle ore in classe, non ci sarà mai più quel dormitorio, non ci saranno mai più quelle feste più e meno clandestine, non ci saranno più quelle giornate assieme al fiume Drôme, non ci sarà mai più quella perfetta sinergia negli interessi e nelle lotte in comune. Non ci saranno mai più quelle stesse utopie, dall’impegno politico e ambientalista a quei frammenti di discorsi come tasselli di una Babele a più voci sull’essere ragazzi e sull’esserlo oggi, post-pandemia e in una situazione geopolitica tutt’altro che tranquilla, con un orizzonte lavorativo più che mai precario. Sessantasei minuti in rigoroso 4/3 in cui racchiudere, in quattro capitoli espressamente dedicati ad altrettante studentesse in uscita dal Lycée Collège du Diois, ma anche ai loro amici e compagni d’avventura senza i quali filmare e raccontare la loro esperienza non avrebbe alcun senso, la verità cristallina di un’era si chiude, spalancando le porte verso le speranze e le paure di un futuro nebuloso e ancora tutto da scrivere, e proprio per questo da prendere di petto come un’altra era che si apre. Sono Aurore, Nours, Jeanne e Diane, a tenere le fila e a stratificare con la staffetta fra le loro voci fuori campo questa cronaca di una separazione annunciata, magari non proprio del tutto permanente nella possibilità di incrociare ancora parte dei percorsi di vita, eppure impossibile, per le giovani protagoniste, da non guardare con occhi lucidi. Chi ha già vissuto una separazione, familiare e dalla grande città al paesino, con una madre depressa con la quale è diventato difficile convivere, e con quegli attacchi di panico che arrivano improvvisi a togliere il respiro. Chi non è sicura di essere stata realmente voluta, e chi al contrario conosce perfettamente i percorsi anche dolorosi affrontati dai genitori per poterla avere. Chi non sente corrispondere l’età del corpo con quella dello spirito e non può fare a meno di ragionare sul tempo, e chi si interroga apertamente sulla possibile legittimità della violenza quando il fine da ottenere è grande e importante al punto di giustificare ogni mezzo di lotta. Chi si interroga sulla famiglia e sulla solitudine, chi si interroga sui compromessi e sul senso dell’esistenza, chi si chiede se non sia proprio il trauma il momento fondamentale attraverso il quale scoprirsi cresciuti. Chi ama vestirsi da dark, chi da punk e chi intreccia quei lunghi dread che, al momento di tagliarli, diventeranno il principale simbolo del cambiamento da affrontare, della chiusura – inevitabilmente dolorosa e potenzialmente sconvolgente, ma assolutamente necessaria – di un capitolo per aprirne uno completamente inedito. Il resto sono istanti e capacità di lasciarli accadere e di filmarli, lacerti d’adolescenza e di amicizia, scherzi e fughe sotto le gonne, autostop e danze in cortile, tarocchi interpretati nella penombra di una stanza e risate lanciandosi su un materasso in corridoio. Sono porte, specchi e condivisioni di momenti pubblici e privati, brandelli apparentemente portati dal vento di discorsi su pace, giustizia, attivismo, arte, musica e tecnologia, inserti al cellulare di feste del presente e(ppure già) passate, alfabeti interiori e linguaggi non necessariamente verbali. E poi foto di classe, poster da staccare dai muri di stanze da disarredare in silenzio, consapevolezze e sogni su dove e cosa studiare, su quale forma cercare di fare prendere al proprio futuro in costruzione, «che non esiste (ancora), e che proprio per questo non si può perdere» come un treno in corsa. Ce n’est qu’un au revoir, “non è che un arrivederci”. A un tempo, a una classe, perfino a quei se stessi, destinati con la maturità a diventare un ricordo. Un film magnificamente sospeso sul crinale fra l’amarezza e la speranza, fra il disincanto e una nuova illusione, su una sensazione apparentemente impossibile da rendere immagini e che invece brilla nitida sullo schermo. Abbastanza inspiegabilmente ignorato sia dalla selezione ufficiale di Cannes77 sia da quella della Quinzaine, arriva comunque sulla Croisette grazie all’oculatezza dell’ancor più indipendentissima ACID, pronta ad aprire ancora una volta le porte a un cinema purissimo, di fiducia, di attesa, di tocco, di affinità, di sguardo, di tersa schiettezza. Un cinema genuino e ostinatamente autentico, raro e prezioso, tanto poetico quanto sincero nel raccontare la vita e l’umano senso di smarrimento di fronte ai suoi bivi. Ce n’est qu’un au revoir, “non è che un arrivederci”. Si spera a molto presto.

Marco Romagna

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