Un fils è un film coerente e nel contempo piatto nella sua compattezza. Parte dal presupposto di raccontare la Storia ma si nasconde dietro i suoi personaggi per tramutare un quadro grande in una visione piccola, credendo di fare l’opposto. La sinossi: nel 2011, durante la primavera araba, un bambino (il fils del titolo) viene colpito erroneamente da un proiettile mandato da una milizia terroristica, durante una vacanza in macchina con i genitori. Rimane gravemente ferito, ed è imminente la necessità di trapianto, ma i tempi sono ristretti ed è arduo trovare un donatore. Sono i genitori i veri protagonisti: da una parte la madre (Najla Ben Abdallah) che fa di tutto, entro i limiti della struttura ospedaliera e della legge, per salvare la sua prole, dall’altra il padre (Sami Bouajila, vincitore del premio miglior attore nella sezione Orizzonti alla 76a edizione della Mostra del Cinema di Venezia) che invece preferisce uscire dall’imposizione legislativa entrando persino in contatto con un’organizzazione criminale pur di avere una speranza di salvare il piccolo. La lotta contro il tempo parte dal presupposto che la madre non ha lo stesso gruppo sanguigno del bambino, e il padre, come si viene a sapere dalle analisi del sangue… non ne è il padre biologico. Quest’ultima scoperta, che sostanzialmente coincide con la scoperta di un adulterio, trasforma completamente il padre, che si chiude rispetto al dialogo con la moglie, solo e disperatamente convinto di poter fare il meglio per il figlio contrastando il mondo che ora gli sembra andare contro, in ogni direzione e in ogni modo. La verità è che Un fils, esordio alla regia per Barsaoui, si propone come un film sia politico che intimo, e nel fare ciò diventa sia un’avventura ‘thriller’ sia un polpettone catastrofista. L’avventura/missione che la visione propone vede gli spettatori cercare di lottare col tempo insieme ai protagonisti, seguendo una regia caotica e movimentata che non lascia spazio alla riflessione, come scendendo sempre di più nella voragine del dolore e della tensione, alla ricerca tragica di una speranza che sembra sempre più lontana. È difficile vivere come avvincente la costruzione narrativa, prevedibile nel suo divenire a ritmi di legge di Murphy, che altro non fa che perseverare nella messinscena del dolore, senza analizzarlo e senza cercare di risolverlo, solo e unicamente pervadendo la visione di sofferenza ineluttabile.
Certo, si può dire che non si può fare altrimenti: bisogna essere programmaticamente tragici per raccontare al meglio il male di una nazione, i suoi problemi di comunicazione, e l’incapacità di convivere, nel caos più totale, con un mondo che non risponde. Ma Un fils fa la scelta un po’ problematica di non cercare alcun capro espiatorio, rimanendo nella vaghezza della rappresentazione dall’interno, nell’intimismo, che tuttavia così si fa visione individualista, egoista, senza respirare la libertà e la ribellione che il cinema dovrebbe poter raccontare. Il padre, in particolare, è un personaggio veramente insopportabile; probabilmente è anche voluto, visto il modo in cui i suoi errori finiscono per andargli contro in un flusso karmico inequivocabile, ma sembra davvero trascinare con sé, almeno parzialmente, lo sguardo del film. È lapalissiano che la moglie costituisca lo sguardo “giusto”, ma raccontando più il punto di vista del padre si vede il triste incontro tra lui e la realtà che lui sta rifuggendo non tanto come una realizzazione dell’errore dietro la sua visione egoistica del proprio dramma, quanto come un ennesimo errore di passaggio, un’ennesima cazzata con cui incolpare se stesso, e unicamente se stesso – il che trascina il film verso il basso, il materiale, insieme a ogni suo gesto, ogni sua battuta. Così si costruisce un inferno personale, invece che un universo infernale/sociale. Anche l’universo personale può essere messo in scena dal cinema come un macrocosmo da approfondire, ma non può (o non deve) prescindere completamente da ciò che c’è attorno, perché così la denuncia diventa sterile, viene privata del fondamento, si fa disumana in barba all’unica cosa che conta raccontare in questi casi, ovvero l’umanità. Umanità che, se vediamo i protagonisti di Un fils, è raccontata solo coi difetti dell’uomo e con l’inevitabilità di un destino che può essere cambiato solo materialmente. La regia di Barsaoui è troppo integrata nella realtà senza il minimo desiderio di uscirne, e così rimane bloccata addosso all’uomo, senza raccontarlo nell’ottica della solidarietà nei tempi bui del pericolo e della paura, ma nell’ottica del male di cui siamo capaci quando vogliamo fare del bene. È un film di crisi, sulla crisi (esistenziale e nazionale), che nel raccontare se stesso finisce per andare in un’ulteriore crisi.
Non è tutto buio, tuttavia. La parte centrale di Un fils è triste e sfaccettata, ma il suo prologo e il suo epilogo, che fuoriescono dalla coerentissima ma disfunzionale e prevedibile struttura del secondo atto, raccontano altre due storie, che avremmo voluto vedere maggiormente e diversamente in questo racconto. Prima della sparatoria che vede cominciare la parabole discendente del figlio (sparatoria che per tutto il film viene trattata come un incidente e non come un attacco…), vediamo una festicciola vacanziera tra amici, coppie di genitori con figli, tra gli alberi. Un picnic con birrette e sigarette, in cui tutti giocano, ridono, sbevazzano, si godono la pausa dal lavoro, si raccontano barzellette. Prima che arrivi l’inferno del dolore, la macchina da presa persiste girovagando tra i volti e i gesti, leggera, nascondendosi tra gli alberi tra stacchi di montaggio confusi, anche un po’ amatoriali, ma che delineano con dolcezza la quiete prima della tempesta. Nonostante ciò, questo stile un po’ dispersivo aiuta anche già a far passare un contenuto politico, che ironicamente arriva con molta più efficacia qui che nel resto dell’opera: una ragazza comincia a raccontare una battuta su un Imam, ma prima della battuta finale la macchina da presa e l’audio si concentrano su altro, si auto-censurano, per poi tornare sulle risate. È sia una dichiarazione d’intenti che si auto-giustifica per il resto del film, che appunto sembra spesso censurarsi da solo per raccontare le conseguenze (che non sono più risate…) più che i fatti (la punch-line, che è la realtà dietro lo sparo), sia un modo poetico e semplice per raccontare un dramma piccolo borghese in modo quasi francese, prima che si divaghi nella tragedia. Il finale invece trasforma la tragedia, rimasta incompiuta, in un momento di ritrovamento, qui sì riincontrandosi con l’umanità solidale che il cinema dovrebbe inscenare, senza raccontare il distacco di cui già siamo consci. Dopo l’inferno, un incontro di sguardi, e forse tutto quest’individualismo è servito a qualcosa: a eliminarsi, a far rinascere davvero una specie di speranza, di amore, di apertura. In un semplice campo-controcampo. Sono due lampi nell’oscurità di un film spento e vuoto, con una missione giusta ma il cui intreccio ha svolti depressivi, sgradevoli, vacui, poco cinematografici. Un film politicamente necessario forse in Tunisia per la rappresentazione di uno sguardo raramente contemplato, ma troppo parziale.
Nicola Settis