5 Settembre 2024 -

BESTIARI ERBARI LAPIDARI (2024)
di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi

BESTIARI. Il primo dei tre micro-film (poco più di un’ora l’uno) che si susseguono all’interno del nuovo macro-documentario di D’Anolfi e Parenti ha portato più di venti persone a uscire dalla sala alla proiezione ufficiale in Sala Giardino durante la Mostra di Venezia. Un trionfo che sembra volontario: questi tre lavori, vicini per stile e diversi per materia d’interesse, sarebbero forse potuti essere messi in qualsiasi ordine senza cambiare il proprio effetto singolarmente. Ma Bestiari è la sezione più scioccante, quella che avverte gli spettatori di ciò che verrà, e lo fa senza compromessi trovando la sua via nel vedere il reale. Non mera documentazione, ma un’esperienza che ci mette a contatto con la materia, e con ogni sua stratificazione. Nel fare il loro “bestiario”, la base è perlopiù una catalogazione di documenti, impressi su pellicola, riprese scientifiche fatte ai tempi del muto per studiare i movimenti e comportamenti degli animali. Si alternano atrocità (per cui: la fuga en masse dallo schermo) a momenti dolcissimi, come dei boa che stritolano e ingoiano dei coniglietti o un lungo tentativo di un esploratore dell’Antartide di avvicinarsi a un pinguino che indietreggia a ogni interazione. A questi fotogrammi recuperati d’archivio si alternano anche riprese odierne, perlopiù registrate nell’archivio stesso mentre viene consultato dai registi, oltre che immagini di operazioni chirurgiche all’interno di uno studio veterinario, come la vita di un cane salvata da un’intubazione di emergenza. I progressi della veterinaria e gli studi più sperimentali di (solo?) un secolo fa, messi a confronto in un paesaggio di contrasti. Il nostro rapporto con l’animale è sia messo in scena che studiato nell’interazione tra schermo e spettatore. Perché uscire dalla sala? Ma anche, perché rimanere? Il rapporto tra il cinematografico e l’animale è direttamente teorizzato, approfondito nelle parole del film. Ipnotizzati in un meccanismo di repulsione ed empatia, ci scuotiamo nella sedia, accompagnati da un singolo filo pseudo-narrativo che fa da cornice: una serie di didascalie che narrano una favola sul regno di animali, un’arca di Noè che diventa una piramide alimentare, in cui gli umani si mettono in cima mangiando i sogni di tutti gli altri, portando a milioni di estinzioni. La pesantezza dell’immagine e la durezza del montaggio restituiscono, con la grazia di un sogno, il peso violento della Storia che ci portiamo appresso.

ERBARI. La seconda sezione del film di D’Anolfi e Parenti è dedicata al nostro rapporto con le piante. E sì, anche qua vediamo riprese d’archivio, studi della crescita della vita biologica, time-lapse che evidenziando il movimento spericolato della fotosintesi fanno sembrare il verde che ci circonda ogni giorno una meravigliosa forma di vita aliena. Se abbiamo notato bene, c’erano anche riprese di Das Blumenwunder, documentario didattico tedesco anni ’20 che ha usato questa tecnica a regola d’arte, trasformando il movimento delle piante in quello che rassomigliava un dance-film a tutti gli effetti. Oltre a ciò, anche immagini del più antico orto botanico del mondo, quello di Padova. Il rigore con cui D’Anolfi e Parenti posizionano la macchina da presa attraverso le riprese padovane è impressionante — anche quando appare controintuitivo, la vita floreale rimane sempre al centro dell’inquadratura, e l’uomo che la cura sullo sfondo. L’albero è soggetto, l’umano è oggetto. Nell’inquadratura originale più bella di tutto il film, addirittura la fine dell’azione umana a cui stavamo assistendo (ovvero: portare via in un camioncino i rami tagliati dagli alberi) è vista sfuocata dietro una verdissima foglia pennatosetta. Le possibilità della natura sembrano infinite, e lo schermo si trasforma in una piattaforma semplice, mediante la quale chi guarda (spettatore E regista) non solo si perde in uno spazio, ma anche nella riflessione e nell’atmosfera di quello spazio. I punti di vista delle singole inquadrature creano un paesaggio di sguardi frammentari, un mosaico che diventa unitario, un erbario che è già cimitero di immagini e germoglio per immagini future. Del resto, come anche il film ricorda, un animale se viene diviso in più parti muore, mentre una pianta che viene frammentata rimane in vita. Un luogo della flora, diviso nei suoi momenti e nelle immagini della vita che lo costituisce, è una fotografia di linfa vitale come una serie di ritratti. Erbari si chiude sul suo estratto più poetico, dedicato a un Ginko a Hiroshima, sopravvissuto alla bomba nucleare americana e ancora lì presente — un sopravvissuto dell’atomica che è ancora presente a vegliare.

LAPIDARI. Nel momento in cui la materia di discernimento delle immagini smette di essere un qualcosa che ha della vita, non può che subentrare in maniera ancora più massiccia l’uomo. Senza più narrazioni, didascalie o voci narranti, Lapidari si muove come un grande pezzo ambient, armonizzato in un montaggio sonoro liquido dallo straordinario sound design di Massimo Mariani, che con questo film è arrivato al capolavoro della sua collaborazione coi due documentaristi. Dall’esorcizzare il nostro rapporto con la vita degli altri animali al far esplodere il nostro vedere la vita degli altri animali, il macro-documentario di D’Anolfi e Parenti passa a farci trovare un’ennesima catarsi con la materia che ci circonda, stavolta seguendo il processo lavorativo dietro a svariati lavori umani legati alla pietra, e concentrandosi perlopiù sulla morte. I lapidari sono, centralmente, le pietre lasciate in commemorazione di morti non sepolti, vittime di ingiustizie della Storia e della guerra. E filmare il rispetto che l’uomo darà loro tramite l’incastonazione dei loro nomi sulla pietra e il ricordo della loro esistenza in immagini non restituirà alcuna vita o giustizia, ma può perlomeno, solennemente, ricostruire nel tempo del film la reverenza nello sguardo della spettatore, stabilire un rapporto prima inesistente. Alla bellezza inquietante degli sforzi umani per riportare lo ieri all’oggi e l’oggi allo ieri, è messa in diretto contrasto con la nostra stessa Storia, con l’Olocausto, cercando in questo errare silenzioso tra ennesimi momenti frammentari il rigore e il senso dell’operare umano. L’interesse di D’Anolfi e Parenti diviene soprattutto in quest’ultima sezione il posizionamento di un pensiero e di uno sguardo sulle cose, un promemoria dell’importanza del gesto e della forma, del pensiero e della vita.

Ciò che non è detto dalla macchina da presa e dall’imponenza del suono, è detto direttamente dallo straordinario contenuto-documento dell’opera — Bestiari, Erbari, Lapidari è immediatamente uno dei film più importanti dell’anno nel cinema italiano, il film più vicino all’idea di documentario universale e sempiterno che i registi avevano già tentato di raggiungere con Spira Mirabilis. Un’ipnosi audiovisiva di oltre tre ore, radicale, potente, lirica, profonda, magnificamente prendere o lasciare. Immagini e suoni in cui perdersi, come ci si perde nel mondo.

Nicola Settis

“Bestiari, Erbari, Lapidari” (2024)
205 min | N/A | Italy / Switzerland
Regista Massimo D'Anolfi, Martina Parenti
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

ANYWHERE ANYTIME (2024), di Milad Tangshir di Donato D'Elia
YOUTH (HOMECOMING) (2024), di Wang Bing di Marco Romagna
JOUER AVEC LE FEU (2024), di Delphine e Muriel Coulin di Donato D'Elia
HOMEGROWN (2024), di Michael Premo di Donato D'Elia
PHANTOSMIA (2024), di Lav Diaz di Marco Romagna
THE ROOM NEXT DOOR (LA STANZA ACCANTO) (2024), di Pedro Almodóvar di Nicola Settis